Kant - per un giudizio

La ragione in Kant

L'importanza di Kant sta nell'essere stato capace di riprendere e portare a sintesi il processo di vaglio dei limiti e delle possibilità della conoscenza umana, avviato nella filosofia moderna già da Cartesio, ma in qualche modo operante fin dalla dissoluzione della Scolastica (pensiamo a Ockham, che già mette in discussione la possibilità di una metafisica).

Tale processo si era, stando alla ricostruzione fatta dallo stesso Kant, biforcato in due grandi correnti, l'empirismo (fiorito in particolare in Inghilterra) e il razionalismo: alla prima appartengono Locke, Hume (e in qualche modo anche Berkeley), alla seconda Cartesio, Spinoza, Leibniz, per citare solo i maggiori. In tale processo viene messa in dubbio quella che per la filosofia antica e medioevale era una certezza immediata, che cioè la ragione sia apertura all'essere, pensi la realtà stessa, e che perciò sia possibile la metafisica, che è discorso sull'essere, sulla realtà nelle sue leggi più fondamentali. Viene messa in dubbio quella convinzione e al suo posto subentra il dubbio su ciò che davvero la ragione conosca: si conoscono le cose stesse, la realtà stessa? E si possono raggiungere delle verità universali (valide cioè sempre e dovunque)?

1a) La filosofia moderna: una parabola con molti presupposti convergenti

Su alcuni punti razionalismo ed empirismo moderni convergevano.

il dualismo

1) Convergevano nel ritenere ad esempio che ciò che si conosce non sono immediatamente le cose stesse, ma le nostre rappresentazioni soggettive delle cose, cioè le idee. Questo punto è noto come dualismo gnoseologico, dove la dualità è tra idee, che sono l'oggetto immediato della conoscenza e cose, che sono l'oggetto ultimo della conoscenza, ciò a cui insomma rimandano e si riferiscono le idee. D'accordo su questo troviamo sia Cartesio (che pone proprio per tale dualismo il problema di come si possa essere certi che alle idee corrispondano le relative cose, escogitando l'esistenza di Dio come soluzione a tale problema), sia Spinoza (che risolve il problema ponendo un parallelismo tra idee e cose, emanazioni dell'identica Sostanza), sia Locke e Hume (la conoscenza umana non raggiunge se non le proprie impressioni e idee).

la pretesa razionalista

2) Convergenza troviamo anche nel ritenere che sia accettabile come vero solo ciò che è pienamente comprensibile, solo ciò che è filtrabile dai criteri di una ragione che si pone come misura di tutto.

Vediamo da questi due punti come sia il razionalismo sia l'empirismo siano espressioni di una mentalità antropocentrica: il soggetto umano è al centro, la sua ragione è 1) orizzonte intrascendibile e 2) criterio insuperabile.

1b) la biforcazione della filosofia moderna

Ma razionalismo ed empirismo divergevano sul rapporto tra sensi e pensiero: mentre per il razionalismo la conoscenza può giungere a verità universali (nel senso già chiarito), e lo può grazie al fatto che esse sono in qualche modo già presenti nel pensiero (innatismo), per l'empirismo la conoscenza, non avendo in sé alcun contenuto innato (la mente è originariamente tabula rasa), non può mai giungere a un livello universale, ma ha come unico contenuto il dato sensibile particolare. Anche qui però c'è un presupposto comune: che sia impossibile quella che Tommaso d'Aquino chiamava astrazione, cioè il cogliere l'universale dentro il particolare, l'intelligibile dentro il sensibile (esistenzialmente= il poter dare un giudizio sull'esperienza che nasca dall'esperienza stessa, ma sia stabilmente certo). E infatti l'intelligibile, l'universale, o c'è già dentro di noi (come per il razionalismo innatista), oppure non lo potremo raggiungere mai (come per l'empirismo).

In questo modo il pensiero moderno (considerato da Kant) si divarica tra due estremi: un razionalismo, che ha il pregio di riconoscere la conoscenza di verità universali, e dunque di certezze stabili, ma il limite di fondarle su una interiorità chiusa e autosufficiente, non alimentata dall'oggettività; e un empirismo che riconosce sì il debito della conoscenza verso il mondo "esterno", ponendosi in atteggiamento di attenzione al nuovo, ma si preclude la possibilità di dare un vero giudizio sull'esperienza, che alla fine si sgretola in uno sciame disarticolato di particolari.

2a) Kant, compimento della parabola moderna:
la "rivoluzione copernicana"

Sia il razionalismo sia l'empirismo sono stati espressione di una mentalità antropocentrica, per la quale il soggetto umano è al centro. Ma almeno entrambe le impostazioni salvavano ancora un residuo di realismo, nel pensare che le idee, per quanto concepite come il primo e immediato oggetto della conoscenza umana, siano comunque l'esatto calco, l'esatto rispecchiamento delle cose, che esistono oggettivamente, indipendentemente dal soggetto. In qualche modo quindi per tali impostazioni restava pur sempre valida l'antica definizione di verità come "adaequatio mentis ad rem": è la mente umana che deve adeguarsi, conformarsi alla cosa; si conosce la verità quando si pensa ciò che esiste, quando nel pensiero (nel soggetto) si forma una identità con realtà (oggettiva).

Kant invece si spinge oltre, in direzione di un più radicale antropocentrismo, e ritiene che non sia la conoscenza del soggetto a doversi conformare alla realtà, ma siano piuttosto gli oggetti a doversi conformare alle leggi del soggetto. è quella che lo stesso filosofo prussiano chiamava, con orgoglio, la rivoluzione copernicana con cui, analogamente a come Copernico aveva radicalmente riformulato i termini del problema astronomico, egli pensava di aver radicalmente (e definitivamente) reimpostato il problema gnoseologico: non il soggetto ruota attorno all'oggetto, ma al contrario l'oggetto ruota attorno al soggetto, si piega docilmente alle sue leggi e alle sue strutture conoscitive.

diverse possibili interpretazioni

Di tale rivoluzione copernicana si possono dare diverse interpretazioni. Si può vederla come accettazione del limite della conoscenza umana, che filtrando inevitabilmente gli oggetti attraverso le proprie strutture risulta incapace di cogliere la realtà in sé, ossia la verità assoluta (=sciolta da, non relativa ai condizionamenti limitanti del soggetto); in questo senso Kant sarebbe il filosofo della finitezza, l'ultimo dei moderni; così egli viene per lo più interpretato da parte di filosofi "del limite", come gli esistenzialisti (in Italia ad esempio Abbagnano ha sostenuto questa linea). Ovvero si può considerare la "rivoluzione copernicana" come espressione del potere, in qualche modo creativo, del soggetto e della ragione: ciò che importa in quest'altra prospettiva non è il fatto che le cose-in-sè restino sempre al-di-là, importa piuttosto che il fenomeno conosciuto sia essenzialmente determinato, plasmato dal soggetto; il soggetto pertanto non ha più un ruolo passivo, non si limita a registrare un dato, ma attivamente forgia questo dato, conferendogli le sue forme a-priori. La parte del leone insomma non la fa la cosa-in-sè, che si limita a fornire al fenomeno una informe e malleabile materia, ma il soggetto conoscente, che organizza e struttura tale materia dentro le proprie forme (le "intuizioni pure" e le "categorie"). In questo senso Kant sarebbe il filosofo non già della finitezza e del limite, ma della (tendenziale) infinitezza, del potere creativo del soggetto, e dunque non l'ultimo dei moderni, ma il primo dei contemporanei, in quanto antesignano dell'idealismo.

è chiaro che se fosse vera la prima linea interpretativa la filosofia di Kant sarebbe meno inaccettabile dal punto di vista del realismo, potendosi considerare come sofferta e dolorosa rassegnazione all'impossibilità di accedere a un assoluto di verità, di cui pure egli riconosce una inestirpabile nostalgia; mentre se fosse vera la seconda non si potrebbe che bollare l'impresa kantiana quale espressione di un superbo e prometeico antropocentrismo, dimentico della concretezza del dramma umano. In realtà convivono in Kant, non senza contraddizione, entrambi questi aspetti: una residua onestà nel riconoscere che il desiderio che anima la ragione è conoscere la realtà in sé, la verità assoluta, che è oltre il fenomeno scientificamente indagabile; ma anche la preconcetta e trionfante esultanza di aver "liberato" l'umanità dal giogo di una sottomissione all'oggettivo (e qui la dice lunga la sua posizione, di saccente disprezzo, nei confronti della Chiesa e di Cristo). Il fatto è che a Kant sfuggiva come fosse contraddittorio aspirare alla verità (assoluta) senza piegarsi alla Verità (del Mistero): un assoluto senza l'Assoluto, tale sembra essere il segreto (e paradossale) voto dell'asceta laico di Königsberg.

2b) e (preteso) punto di convergenza della biforcazione

Kant, valendosi della sua "rivoluzione copernicana", pretende di fornire la soluzione sintetica alla diatriba sopra vista tra razionalisti ed empiristi, assimilando elementi da entrambi. Ma vedremo come tale sintesi sia insoddisfacente.

Prima però dobbiamo osservare che è comunque riduttivo esaurire la parabola della filosofia moderna in una dialettica tra razionalismo ed empirismo; la storia della filosofia moderna è stata ben più ricca e complessa, ed è attraversata da altre contrapposizioni: ad esempio quella tra una modernità laica e quella tra una modernità cristiana; ma non a caso Kant ignora tale complessità: lo schema che da sapiente regista propone, mettendo in scena solo quei due attori (razionalismo ed empirismo), è funzionale alla sua risolutrice comparsa finale, da deus ex machina che finalmente svela ogni enigma.

Perché comunque Kant può presentarsi come sintesi di razionalismo ed empirismo? Lui stesso lo spiega, introducendo il concetto di giudizi sintetici a-priori: tali giudizi presentano il vantaggio di assicurare alla conoscenza un livello di universalità, quale era fin allora prerogativa del razionalismo, senza restare però vittima di quello che del razionalismo era il difetto, ossia la chiusura del pensiero in sé stesso. I giudizi sintetici a-priori infatti godono tanto della universalità loro assicurata dalla componente della forma a-priori, quanto della fecondità, cioè della possibilità di arricchimento di nuovi contenuti, che deriva loro in forza dell'apporto dell'esperienza (dato il loro carattere sintetico). Il valore dell'esperienza, caro all'empirismo, viene così recepito nel carattere di sinteticità di tali giudizi, ma viene recepito anche il valore della razionalità universalizzatrice, caro al razionalismo, nel loro carattere di a-priorità. L'esperienza, così, non può fare a meno del concetto, della ragione, e il concetto a sua volta non può fare a meno dell'esperienza: "i concetti senza intuizioni sono vuoti", contro il razionalismo (vacuità tautologica dei giudizi analitici a-priori), ma al contempo "le intuizioni senza concetti sono cieche" (frammentata dispersività dei giudizi sintetici a-posteriori).

Dobbiamo però chiederci se davvero tale sintesi sia soddisfacente. La risposta è negativa, poiché da una parte l'universalità garantita dalla componente a-priori è una universalità per così dire a) forzosa, e b) circoscritta al fenomeno, inteso come lo intende Kant; d'altra parte l'esperienza che viene inglobata nei giudizi sintetici a-priori non è realmente l'esperienza nel suo darsi integrale di effettiva novità e imprevedibilità. Spieghiamo che cosa vogliamo dire: universalità "forzosa", tale cioè perché imposta dal soggetto; essa non scaturisce dalla cosa conosciuta, ma è il soggetto che impone all'oggetto conosciuto il suo "stampino"; resta perciò il dubbio che tale universalità non sia vera, ma sia semplicemente un abito con cui la mente umana riveste gli oggetti; "circoscritta al fenomenico", perché per Kant i giudizi legittimi riguardano solo il fenomeno, e questo termine non solo non designa la realtà creata, finita (in quanto distinta da Dio, e già sarebbe una limitazione, poiché l'essere si estende all'Infinito, che anzi, solo, propriamente, è), ma non designa nemmeno la realtà del mondo corporeo (esso stesso è un noumeno, per Kant), limitandosi piuttosto al livello di ciò che è scientificamente conoscibile. Allora si vede che l'universalità dei giudizi è funzionale esclusivamente alla scienza, non c'entra nulla con la sapienza, non serve cioè a dare un giudizio sul significato della realtà. Il che è una lacuna non da poco. Perché ne viene l'impossibilità della metafisica, il non poter dire nulla sul senso dell'esistenza.

Infine: l'esperienza di cui parla Kant è una falsa esperienza, una esperienza in cui non può accadere niente di realmente nuovo. Infatti è un'esperienza ingabbiata nell'a-priori, per il motivo detto prima: l'universalità, esistenzialmente il giudizio, non è tratto dall'esperienza, ma a questa viene imposto.

3) la ragione e il Mistero

Gli esiti sono noti: per Kant da un lato la ragione niente può dire di certo sull'esistenza del Mistero (dal punto di vista dell'ontologia), d'altro lato (dal punto di vista dell'etica) essa detta legge al Mistero, pretende di incapsularlo "nei limiti della pura ragione". Tra tali due tesi c'è uno stretto legame: è proprio la "libertà" di cui gode il soggetto razionale di fronte al Mistero (libertà derivantegli dalla sua impossibilità di riconoscerne con certezza l'esistenza, vedi negazione della metafisica: "Non conosco quell'Uomo") che lo rende poi spavaldo e spregiudicato nell'imporre i suoi dettami a quel Mistero che è ormai sua benevola e magnanima concessione. Per questo Kant può dar luogo a una vera e propria strumentalizzazione di Dio a fini etici (occorre che Dio esista, perché l'etica sia fondata: l'ontologico al servizio dell'etico), e per questo può rinserrare la religione "nei limiti della pura ragione", escludendo qualsiasi possibile iniziativa di automanifestazione del Mistero, ridotto, illuministicamente del resto, a fredda entità. Una entità, di cui non si può fare a meno (sennò come faremmo ad avere una ricompensa eterna per la virtù?), ma che va il più possibile messa in riga e tenuta a debita distanza (mai si vedrà il Suo Volto: l'occupazione delle anime, nella vita futura, sarà quella di perfezionare la propria virtù, in un eterno e mai compiuto lavorio).