Pascal, testi

Dio

il giusto atteggiamento dell'uomo

[421] Io biasimo ugualmente coloro che abbracciano il partito di lodare l'uomo, coloro che preferiscono biasimarlo, e coloro che preferiscono divertirsi; e non posso approvare se non coloro che cercano gemendo.

le prove metafisiche

[543] Prefazione. Le prove metafisiche di Dio sono tanto lontane dal modo di ragionare degli uomini e tanto complicate, che colpiscono poco; e quando anche servissero per alcuni, servirebbero solo nel momento che essi vedono la dimostrazione, ma un'ora dopo temerebbero d'essersi ingannati. [...]

[242] Mi fa meraviglia l'ardimento con cui queste persone si accingono a parlare di Dio. Rivolgono i loro ragionamenti agli increduli, e il loro primo capitolo consiste nel provare la Divinità per mezzo delle opere della natura. Non mi stupirei del loro procedere se rivolgessero i loro ragionamenti ai credenti, giacché è certo che quanti hanno una fede viva nel loro cuore vedono immediatamente che tutto ciò che esiste non è altro che l'opera del Dio che essi adorano.

Ma qui si tratta di coloro in cui questo lume si è estinto, e nei quali ci si propone di farlo rivivere: si tratta di quelle persone destituite di fede e di grazia, le quali, ricercando con tutto il lume che posseggono tutto ciò che vedono nella natura come idoneo a guidarli a questa conoscenza, non trovano che oscurità e tenebre; ora il dire a costoro che basta che guardino la più esigua delle cose che li circondano e che vedranno Dio manifesto, e il dar loro, per tutta prova di questo grande ed importante oggetto, il corso della luna e dei pianeti, e il pretendere di aver completato la prova con un tal ragionamento, è un dare agli altri argomento di credere che le prove della nostra religione sono ben fragili; e io vedo, per ragione, e per esperienza, che nulla è più indicato per far nascere in loro il disprezzo verso di essa.

Cartesio

Non posso perdonare a Cartesio: egli avrebbe pur voluto, in tutta la sua filosofia, poter fare a meno di Dio; ma non ha potuto evitare di fargli dare un colpetto, per mettere il mondo in movimento; dopo di che non sa più che farsene di Dio.

il pari

[233] Parliamo adesso secondo i lumi naturali. Se c'è un Dio, egli è infinitamente incomprensibile, poiché, non avendo né parti né limiti, non ha nessun rapporto con noi. Noi siamo dunque incapaci di conoscere tanto ciò ch'esso sia quanto se egli sia. [...].

Ma da quale parte inclineremo?

La ragione qui non può determinare nulla: a separarci da ciò che cerchiamo c'è di mezzo un caos infinito. Si gioca una partita, all'estremità di questa infinita distanza, e in essa riuscirà testa o croce. Su quale delle due scommetterete? Secondo ragione, non potete dire né l'uno né l'altro; secondo ragione, non potete escludere nessuno dei due casi. Non imputate dunque di errore quelli che hanno compiuto una scelta; perché voi non ne sapete nulla.

«No; ma io li biasimo di aver fatto, non quella scelta, ma una scelta: perché, anche se tanto colui che sceglie croce quanto l'altro incorrano in un errore analogo, quel che conta è che tutti e due sono in errore; il partito giusto è di non scommettere affatto».

- Sì; ma è necessario scommettere; ciò non è affatto facoltativo, voi siete imbarcato.

Quale dei due prenderete dunque? Vediamo. Poiché scegliere bisogna, vediamo ciò che vi interessa di meno. Voi avete due cose da perdere: il vero e il bene; e due cose da impegnare nel gioco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha due cose da fuggire: l'errore e la miseria. La vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l'uno che scegliendo l'altro, perché bisogna scegliere necessariamente. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita, dando a croce il senso che Dio esiste.

Valutiamo questi due casi: se guadagnate, voi guadagnate tutto; se perdete, non perdete niente. Scommettete dunque che egli esiste, senza esitare.

— «E magnifico! Sì, bisogna scommettere; ma io arrischio forse troppo». — Vediamo. Poiché vi è uguale probabilità di guadagno e di perdita, se voi non aveste a guadagnare che due vite contro una, potreste già scommettere; ma se ce ne fossero da guadagnare tre, bisognerebbe giocare (poiché siete nella necessità di giocare), e sareste imprudente, dal momento che siete forzato a giocare, a non arrischiare la vostra vita per guadagnarne tre in un gioco ove uguale è la probabilità di perdita o di guadagno. Ma c'è addirittura una eternità di vita e di felicità. E, così stando le cose, quando ci fosse un'infinità di probabilità di cui anche una sola fosse a vostro favore, voi avreste ancora motivo di scommettere uno per avere due; e agireste con cattivo criterio, essendo obbligato a giocare, se rifiutaste di giocare una vita contro tre in un gioco in cui su un'infinità di probabilità, ce n'è una per voi, se poi ci fosse da guadagnare un'infinità di vita infinitamente felice. Ma qui c'è proprio un'infinità di vita infinitamente felice da guadagnare, una probabilità di guadagno contro un numero finito di probabilità di perdita, e ciò che voi giocate è finito: ciò toglie ogni incertezza al gioco: dovunque sia l'infinito, e non vi sia infinità di rischi di perdita contro il caso di guadagno, non c'è da stare a contrappesa-re, bisogna impegnare tutto. E così, quando si è forzati a giocare, bisogna proprio aver rinunciato alla ragione per voler tener in serbo la vita anziché rischiarla per il guadagno infinito, così facile a venire quanto la perdita del nulla. [...]

Ogni giocatore arrischia con certezza per vincere con incertezza; e tuttavia egli rischia di sicuro il finito per guadagnare senza sicurezza il finito, e ciò senza peccare contro la ragione. [...]

E così la nostra posizione ha in sé una forza infinita quando c'è il finito da arrischiare ad un gioco in cui ci sono uguali probabilità di guadagno e di perdita, e l'infinito da guadagnare. Ciò è dimostrativo; e, se gli uomini sono capaci di qualche verità, questa è una.

«Lo confesso, lo riconosco. Ma tuttavia, non c'è maniera di scoprire il segreto del gioco?». — Sì, la Scrittura, e il resto ecc.

Sì; ma io ho le mani legate e la mia bocca è muta; qui mi si forza a parlare, e io non sono in libertà; non mi si scioglie, ed io sono fatto in tal modo che così non posso credere. Che volete dunque che io faccia?».

— è vero. Ma riconoscete almeno la vostra impotenza a credere, dal momento che la ragione vi ci porta e tuttavia voi sentite che non potete. Adopratevi dunque, non già a convincervi con l'aumentare il numero delle prove dell'esistenza di Dio, ma con la diminuzione delle vostre passioni. [...]

[278] E il cuore che sente Dio, e non la ragione. Ed ecco che cos'è la fede: Dio sensibile al cuore, non alla ragione.

[566] Non si comprende nulla delle opere di Dio, se non si prende come principio ch'egli ha voluto accecare gli uni e illuminare gli altri.

[267] L'ultimo progresso della ragione è di riconoscere che c'è un'infinità di cose che la sorpassano; essa non è che debole cosa, se non giunge fino a conoscere questo.

Ma, se le cose naturali la sorpassano, che dire di quelle soprannaturali?

[270] La ragione non si sottometterebbe mai, se non giudicasse che vi sono delle occasioni in cui deve sottomettersi. E dunque giusto che si sottometta, quando essa giudica che deve sottomettersi.