Tibhirine vent’anni dopo: la rivincita dei martiri

Non si è affatto esaurita l’eredità dei sette trappisti rapiti e uccisi in Algeria dai terroristi islamici. Grazie alla presenza di un missionario e di un laico, il monastero continua a rappresentare una Chiesa per un popolo musulmano. E i frutti del dialogo si vedono.

Essere una Chiesa per un popolo musulmano, fedele al Vangelo e al popolo algerino. Ecco l’ispirazione e la sfida che hanno accompagnato la maturazione non solo di tutta la piccola Chiesa d’Algeria, ma anche e soprattutto dell’esperienza monastica a Tibhirine, sulle montagne dell’Atlante, nei pressi di Medea. Qui, una piccola comunità di monaci trappisti ha saputo, nel corso di quasi sessant’anni, garantire una presenza «orante tra gli oranti dell’islam», aprendosi un po’ alla volta alle istanze specifiche di quel contesto: un villaggio di montagna, totalmente musulmano e molto tradizionale, cresciuto accanto e con il monastero. Esistenze intrecciate; destini segnati dalla stessa follia mortifera che ha sconvolto l’Algeria negli anni Novanta; vite donate sino al sacrificio estremo. Quelle di sette monaci che hanno condiviso la sorte tragica di quasi duecentomila algerini.

una scena del film Uomini di Dio

Sono stati rapiti e uccisi esattamente vent’anni fa i fratelli trappisti di Tibhirine. Prelevati nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996 dai terroristi del Gruppo islamico armato (Gia), sono stati successivamente assassinati in circostanze non chiarite. Sembra ancora lontano il tempo della verità giudiziaria, che incespica in un groviglio di menzogne e reticenze. Ma l’autenticità della loro testimonianza e la limpidezza del loro messaggio continuano ad alimentare quello “spirito di Tibhirine” che a vent’anni di distanza è ben lontano dall’esaurirsi. Anzi, continua a spirare ben oltre la Chiesa d’Algeria per diventare sempre di più patrimonio della Chiesa universale e anche di molti non credenti, che traggono ispirazione dal significato profondo di quelle vite donate.

un'atmosfera speciale

C’è un’atmosfera speciale in questo monastero che da quindici anni vede la presenza di un’unica persona, padre Jean-Marie Lassausse, della Mission de France, “custode” e “giardiniere” di Tibhirine, affiancato da un paio d’anni da un laico cistercense. Sono arrivati sin qui, ad aprile, alcuni familiari dei monaci uccisi, alcuni di loro per la prima volta. C’è il superiore generale dei trappisti, dom Eamon Fitzgerald, insieme agli abati di alcuni monasteri da cui provenivano i monaci uccisi. C’è monsignor Henri Teissier, l’allora arcivescovo di quella piccola Chiesa strapazzata dal vento spietato del terrorismo islamista, insieme agli attuali vescovi Paul Defarges di Costantine e Algeri e Jean Paul Vesco di Orano. C’è anche il wali, il prefetto, che con la sua partecipazione segna una vicinanza delle istituzioni non sempre scontata.

Un piccolo “gregge” di pellegrini, per una commemorazione molto essenziale e intensa, nonostante l’enorme apparato di sicurezza, che resta però fuori dal cancello. Dentro si respira un senso di pace, silenzio e preghiera. è il tempo del ricordo, della memoria, della commozione. Ma è anche l’occasione per ribadire che Tibhirine vive e continuerà a raccontare al mondo una storia di fede e fedeltà. Fede e fedeltà che hanno sorretto i monaci sino al sacrificio estremo della loro vita. Una «vita donata», come scriveva il priore di allora Christian de Chergé nel suo testamento spirituale: «Donata a Dio e a questo Paese».

Padre Jean-Marie prega di fronte alle loro tombe. Semplici lapidi, all’ombra di antichi pioppi: «Dio misericordioso, fa’ dei nostri sette fratelli una luce nelle nostre notti. Fa’ di noi degli artigiani del perdono, alla maniera di padre Christian; degli uomini liberi come fratel Luc; uomini di pace come fratel Christophe; uomini dell’accoglienza, come fratel Célestin; uomini della discrezione come fratel Michel; uomini del sorriso come fratel Paul; uomini di fede come fratel Bruno».

La voce è segnata dall’emozione: «Il vostro sangue continua a irrigare la Chiesa universale. Siete stati una comunità di pionieri nel dialogo con i credenti musulmani, attraverso i rapporti di lavoro che avete creato, con la preghiera che avete fatto salire sino a Dio misericordioso e attraverso l’amicizia che avete dato e ricevuto da questo villaggio di Tibhirine. Sì, Tibhirine, il “giardino”, irrigato ieri come oggi da acqua abbondante, ma anche dal sangue di questi nostri fratelli, la cui fede e il cui sacrificio continuano a sostenere la vita di questa Chiesa».

C’è anche frère Thomas Georgeon, trappista pure lui, a questa cerimonia semplice e toccante. è il postulatore della causa di beatificazione collettiva che comprende tutti i 19 religiosi e religiose uccisi in Algeria tra il 1994 e il 1996, l’ultimo dei quali è stato monsignor Pierre Claverie, massacrato con un’autobomba insieme al suo amico e autista Mohammed, il 1° agosto di vent’anni fa. Attualmente la causa è nella “fase romana”. A breve verrà pubblicata la positio, che poi dovrà essere valutata dalla Congregazione delle cause dei santi. Secondo Georgeon, «in loro, così come negli altri dodici martiri cristiani della Chiesa d’Algeria, c’era il desiderio profondo di vivere il Vangelo, di servire la Chiesa e di testimoniare la fede nell’incontro con il popolo musulmano».

Per questo sono rimasti. Dopo un lungo discernimento personale e comunitario. Lo conferma anche Teissier, che era stato vicino alla comunità in quei mesi difficilissimi e drammatici: «Sono rimasti in fedeltà alla nostra Chiesa; sono rimasti in fedeltà alla vita comunitaria, cercando di “disarmare” gli eventi, accettandoli come dono di Dio; sono rimasti in fedeltà al popolo algerino, con il quale avevano scelto di condividere le loro vite, e in particolare con gli abitanti del villaggio, per i quali erano segno di fede e speranza, grazie alla preghiera costante e alle relazioni vissute nel quotidiano. Si erano rifiutati di riconoscersi nell’Algeria che espelleva gli stranieri, ma anche negli estremisti che li uccidevano. Continuando, però, a chiamare gli uni e gli altri “fratelli”».

Lo mette in evidenza anche papa Francesco, che ha firmato eccezionalmente la prefazione al libro collettivo da poco uscito in Francia Tibhirine. L’Héritage: «Non sono fuggiti di fronte alla violenza: l’hanno combattuta con le armi dell’amore, dell’accoglienza fraterna, della preghiera comunitaria. Strumento di pace, di dialogo e di amicizia, i monaci hanno così risposto all’invito rivolto da san Giovanni Paolo II ai vescovi del Maghreb durante la loro visita ad limina nel 1986: “Voi vivete quello che il Concilio dice della Chiesa. Essa è un sacramento, ossia un segno, e non si chiede a un segno di fare numero”. Piccola Chiesa orante in mezzo a un popolo di oranti, i monaci erano un segno sulla montagna».

una presenza ora

Erano e continuano a esserlo. Perché la cosa più evidente che si percepisce a Tibhirine è che questo monastero continua a vivere e a dare frutti nel solco tracciato dai monaci. Tibhirine oggi è ancora e innanzitutto un luogo di Chiesa, dove la preghiera e l’Eucaristia seguitano a scandire le giornate; è un luogo di lavoro agricolo con circa 2.500 alberi da frutto e altre produzioni su sette ettari di terra, portato avanti da padre Jean-Marie, che è agronomo, e da due operai, Youssef e Samir, che sono gli stessi che avevano iniziato a lavorare con i monaci vent’anni fa; è un luogo di solidarietà, grazie soprattutto all’associazione “Amici di Tibhirine France”, che sostiene piccoli progetti di sviluppo; ed è un luogo di accoglienza, aperto a tutti.

In questi ultimi tempi, a causa delle pressanti misure di sicurezza imposte dalle autorità locali, la grande maggioranza dei visitatori è algerina, mentre il numero degli stranieri si è ridotto drasticamente. Persone di tutte le età, a volte provenienti da molto lontano, vengono su queste alture per ricordare i monaci e soprattutto per riconoscenza a frère Luc, “Frelu” come lo chiamano qui, il medico, che con i suoi cinquant’anni di presenza e le migliaia di persone curate o fatte nascere rappresenta la vera icona di questo monastero. Molti si raccolgono sulla sua tomba, sentendosi ancora oggi un po’ figli suoi. Queste visite contribuiscono a mantenere viva non solo la memoria, ma proprio quello spirito di incontro, fratellanza, amicizia e convivialità che i fratelli hanno lasciato, mettendo in gioco le loro vite sino alla fine. Questo è particolarmente evidente anche nella relazione con il villaggio, che si alimenta soprattutto di dinamiche quotidiane.

Infine, Tibhirine continua a vivere anche attraverso gli scritti dei monaci e di molti altri autori, nonché grazie al film Uomini di Dio, che ha permesso a milioni di persone in tutto il mondo di conoscere e intimamente condividere l’esperienza spirituale e di vita di questi uomini essenziali e profondi, che non lascia nessuno indifferente. Secondo fratel Martin McGee, monaco benedettino irlandese, «la fedeltà all’appuntamento della preghiera è il fondamento della relazione con la gente. La spiritualità dell’incontro con Dio conduce all’incontro con gli altri. In quest’ottica si inserisce anche il particolare dialogo che alcuni dei monaci, e in particolare Christian, avevano aperto e portato avanti con musulmani sufi. Questi mistici islamici portano in sé il sentimento costante di vivere sotto lo sguardo di Dio. Lo stesso della vita monastica. Questo senso di dipendenza dell’uomo da Dio favorisce il riconoscimento di chiunque altro affidi totalmente la sua vita a un Altro».

Lo conferma anche chir Khaleb Bentounes, guida spirituale della confraternita Alâwiyya, erede di una lunga tradizione di sapienti musulmani, che era stato per la prima volta a Tibhirine nel lontano 1965: «I monaci avevano saputo condividere la loro vita con gli abitanti del villaggio, nella parola vera, nella fratellanza vera. Come fare ancora oggi, in un mondo dove sembra che la violenza sia la soluzione di tutti i problemi, per continuare a far emergere il senso del bene, del bello, di tutte le virtù e i valori umani? La via sembra sempre più stretta e difficile. Per questo è importante rinnovare l’esperienza che si è vissuta qui e continuare a testimoniare la possibilità di un dialogo e di un incontro, la ricerca di sé, dell’altro e di Dio, anche se questo può dare fastidio a qualcuno».

«Assumere l’eredità di Tibhirine significa diventare a nostra volta segni della semplicità e della misericordia nel nostro mondo», ricorda dom André Barbeau, priore del monastero di Val Notre-Dame, in Canada, che dal 1996 al 2006 è stato il responsabile dell’Ordine per Tibhirine. A quel tempo, aveva cercato di reimpiantare una nuova comunità nel monastero, tra il 1998 e il 2001, ma le condizioni di insicurezza e l’opposizione delle autorità algerine non lo avevano reso possibile.

Un secondo tentativo di riportare una comunità a Tibhirine è avvenuto tra il 2007 e il 2009, con un piccolo gruppo di monache di Bethléem. Un tentativo che non è riuscito a mettere radici né sulle alture di Tibhirine né successivamente ad Algeri. Ora si sta aprendo una terza possibilità, con la comunità Chemin Neuf, che si è detta disponibile a inviare un gruppo di cinque persone, preti e laici. Un grande motivo di speranza per padre Lassausse: «Vorremmo che questo terzo tentativo fosse quello buono. Sappiamo bene che va preparato e accompagnato. Sappiamo che ci vogliono pazienza e tempi lunghi per “aggiustarsi” a questo contesto e a questa tradizione. Sappiamo anche che ci sono delle difficoltà. Ma dobbiamo essere fiduciosi. Tibhirine deve continuare a vivere e a testimoniare che è possibile un incontro tra persone di fedi e culture diverse».

da Vita e pensiero, n.3 2016.