Quazza: Il fascismo, espressione della grande borghesia

L'interpretazione marxista classica del fascismo

Che molti «valori» proclamati dal fascismo siano tipica e diretta manifestazione di credenze, pregiudizi, frustrazioni della mentalità piccolo-borghese, che il fascismo sia in larga misura la traduzione nella lotta politica e sociale dei modelli di comportamento propri dei «ceti medi» visti nel loro abito comune di massa, nessuno vorrà negare. Insistere su questo non reca però alcun reale aiuto all'individuazione dinamica del processo storico se non ci si chiede in quale effettiva misura l'aver assunto quei valori abbia pesato nel condurre il fascismo alla vittoria e quali condizionamenti essi abbiano esercitato sull'avviarlo alla sconfitta. Ciò è possibile soltanto se si cerca di abbracciare il nesso tra storia del fascismo e storia d'Italia in una prospettiva generale di «lungo periodo» che misuri, entro il quadro dell'età del capitalismo, l'intero processo di sviluppo dell'Italia liberale. In altre parole, più dei tratti tipici del fascismo, dev'essere al centro il suo rapporto con le «forze» operanti nella società italiana, perché questo è il vero nodo della battaglia per il potere: quella battaglia che è compito dello storico studiare e del politico affrontare.

Che cosa si perviene a riscontrare con la ricerca di questo rapporto? In primo luogo, che il fascismo è giunto al governo, nell'ottobre 1922, non attraverso un consenso elettorale (nel novembre 1919 i suoi voti erano stati poco più di 4000; nel maggio del 1921 i suoi seggi fra il 6 e il 7 per cento del totale) ma attraverso un'azione violenta. Questa azione violenta deve quindi essere sopra ogni altra cosa sottoposta ad esame se non si vuole gabellare per espressione autonoma di certe forze ciò che è invece strumento, sia pure non interamente passivo, di altre. Quale risultato esso da? Che, senza l'appoggio della grande borghesia agraria e industriale, senza la connivenza dei vecchi centri di potere dello Stato (corona, alti gradi dell'esercito, della burocrazia amministrativa e poliziesca, della magistratura), il fascismo non avrebbe certo vinto. Perciò delineare i tratti specifici del fascismo è utile solo nella misura in cui quei tratti diventano elemento di forza del fascismo verso altre forze, anzi, il punto di riferimento delle «forze» che realmente decidono di coinvolgere il fascismo nella propria azione.

Quando, a questa stregua, si cercano i tratti che i «valori» dei ceti medi assumono nella politica fascista, si scopre subito con tutta evidenza che sono molto generici e soprattutto molto contraddittori, che prendono spesso forma diversa a seconda delle forze verso le quali si muove Mussolini e che Mussolini appoggiano. La ragione sta nel fatto che nei ceti medi in realtà coesistono strati di coltivatori diretti, di artigiani, negozianti e piccoli commercianti, di funzionari statali di livello inferiore e medio e membri delle «classi di servizio», la cui eterogeneità si congiunge, negli anni del primo dopoguerra, alla disorganicità derivante dalla coesistenza di differenti «società» regionali e di diverse «formazioni sociali». Ciò li condanna a un «ruolo» subalterno rispetto ai due maggiori protagonisti dello scontro, la «grande borghesia» e il «proletariato». Una ben maggiore omogeneità e organicità consente infatti a questi un assai più efficace controllo degli strumenti veri del potere dall'alto o del contropotere dal basso.

La grande borghesia, cioè «la classe superiore legata alla proprietà fondiaria e la classe degli alti dirigenti industriali», trova una fondamentale unità, di là dalle differenziazioni e articolazioni delle «strutture di classe parziali» e delle complesse diversità di sviluppo delle «formazioni sociali», nella volontà di difendere il proprio reddito, il proprio prestigio, il proprio controllo del potere. Il «proletariato», sebbene diviso da contrasti tra i lavoratori dell'industria e i lavoratori agricoli, possiede un vasto apparato sindacale, cooperativo, assistenziale, che, congiunto con la rete delle organizzazioni di partito, consente una azione più coordinata e omogenea. Specialmente in un momento di scontro frontale, i «ceti medi» sono destinati a diventare strumenti di una delle altre due parti in lotta.

Se piccoli o medioborghesi già si possono trovare anche ai «vertici» dello Stato, è troppo chiaro che nell'Italia liberale tutto il meccanismo di selezione che li ha portati a quei vertici li dispone implacabilmente a subire il comando dei modelli e degli interessi di un potere politico ed economico saldamente in mano di un'oligarchia nobiliare e grandeborghese. Di più, la formazione stessa dei «servitori dello Stato» è fin dai livelli più elementari segnata irrevocabilmente, nella scuola, nell'ambiente, nella rete dei canali di informazione e comunicazione, da contenuti e ritmi fissati da un impianto gerarchico il cui controllo sfugge ad essi come singoli e come «classe» perché è e non può non essere di chi possiede ciò che solo consente il controllo decisivo: la proprietà dei mezzi di allestimento e mantenimento di quegli strumenti. Ciò non significa, certo, che si possa dimenticare la varietà del gioco degli interventi delle persone e dei gruppi e la complessità delle loro articolazioni; significa che si deve stare attenti a sceverare il primario dal secondario, a rifiutare il ricatto più o meno coperto di quella spuria obiettività che è come «la notte in cui tutte le vacche sono nere». Tra schematismo e scelta dichiarata di un ordine di priorità c'è un abisso: la sola condizione è che nella scelta non venga meno il senso del molteplice.

Né è accettabile, come metro di giudizio sostitutivo di quello sociale, il «mito» del duce demiurgo della lotta politica italiana. Qualora, ad ogni buon conto, si volesse guardare anche attraverso quella specola, l'autonomia politica del fascismo non apparirebbe altro che una costruzione artificiale, esterna. Non è che si neghi che le qualità del «capo» abbiano avuto un certo peso: il fatto che conta è però un altro, cioè che la natura stessa di queste qualità giocò contro una vera autonomia. La concezione mussoliniana della politica come pura conquista personale del potere, che è quanto dire la disponibilità ideologica, politica e sociale del duce, fece del movimento da lui guidato lo strumento più idoneo per l'azione egemonica — essa sì autonoma — delle «forze» che contavano nell'economia, nell'apparato politico, in una parola nella società. Il De Felice stesso, nel momento in cui documenta che la stabilizzazione del «regime» avvenne sulla base dell'esautoramento del partito fascista e della resa all'ordine conservatore, offre una lampante controprova del fatto che il fascismo fu costretto a pagare un prezzo decisivo a chi lo aveva portato al governo. Quel tanto di autonomo che esso conserva è in tal modo confinato al mondo degli epifenomeni politici, importanti non perché incidano a fondo sui processi dell'economia e della società, ma perché rivelano a quali estremi porti la paura di perdere il controllo su questi processi. L'obiezione che la «grande borghesia» non fece (come non fa) del fascismo il proprio regime ideale da un'ulteriore conferma di quale sia il primario e quale il secondario. La grande borghesia ritiene necessità dura ma ineludibile, nel momento dello scontro più diretto, concentrare il «comando politico» al fine di trarre dalle istituzioni il massimo di potere coercitivo per respingere l'attacco rivoluzionario o, in ogni caso, per garantirsi a posteriori della grande paura di perdere tutto. L'insufficienza, e quindi l'errore, dell'equazione fascismo = capitalismo è proprio qui. Il secondo termine va ben al di là del primo, perché concerne le strutture e trova perciò una sua politica nelle diverse contingenze: una politica che dispone i gruppi detentori delle leve strutturali dell'economia e della società anche a subire limitazioni al proprio controllo politico pur di salvare la propria egemonia sociale. Tutte le ricerche a scala locale sinora fatte denunciano questo tipo di conversione al fascismo da parte dei vecchi gruppi dominanti; da tutte risulta come la paura, nel nome dell'«ordine» e della «legge», abbia costituito la spinta decisiva. Nel passaggio dall'Italia liberale all'Italia fascista, se cambiano parzialmente i modi di reclutamento del personale politico e i giochi di governo, resta saldamente la vecchia gerarchia di potere nell'economia, resta la sostanza autoritaria del «sistema». Di più, se sotto il profilo soggettivo a non pochi dei vecchi dirigenti il fascismo appare come il regime capace di dare un consenso di massa al dominio delle forze capitalistiche, sotto il profilo oggettivo è sempre più difficile negare il fatto che i meccanismi organizzativi del fascismo coprono, sotto l'orpello dei «valori» dei ceti medi, rapporti di potere rimasti, nelle strutture di fondo, quelli precedenti il '22.

Queste ragioni, che sotto molti aspetti rendono accettabile la definizione di «regime reazionario di massa», sono già sufficienti ad affermare che la prospettiva della continuità è più utile di quella della frattura a cogliere i significati più importanti del posto che la storia del fascismo ha nella storia d'Italia. [...]

Non è necessario, per il momento-chiave 1919-25, insistere sui dati già acquisiti dall'interpretazione «radicale» e ogni giorno con maggior copia di documentazione ribaditi e confermati dagli studi particolari. La ristrettezza del «blocco di potere», il carattere oligarchico del gruppo dirigente, la sua limitata rappresentatività nell'Italia liberale sono ormai verità incontrovertibili. Altrettanto il processo per il quale alle tappe che avevano segnato l'estensione del corpo elettorale (dall'I,8 per cento del 1861 al 6,8 del 1882 fino al 23,2del 1912) aveva corrisposto il puntuale rafforzamento dell'elite dirigente attraverso le alleanze o i legami con le forze via via emergenti dallo sviluppo dell'economia (ovvio il rinvio, per gli anni di Depretis, alla nascente industria pesante; per quelli di Giolitti, ai gruppi emergenti dal big spurt della prima vera e propria rivoluzione industriale italiana). Ciò che i più autorevoli studiosi liberal-crociani circondavano di riserve e di interrogativi — vale a dire che l'oligarchia dominante si era fatta bensì più varia e articolata al suo interno, ma aveva sempre difeso duramente il proprio dominio ogni qualvolta era esplosa la violenza dal basso (non è necessario ricordare il filo corrente tra la persecuzione degli anarchici e degli internazionalisti negli anni '80 e le repressioni di Crispi e di Pelloux) e non aveva esitato a tentare la cattura degli oppositori attraverso la loro divisione (specialmente Giolitti di fronte ai socialisti riformisti e ai cattolici) — non è oggi seriamente confutabile. E dalle ricerche degli stessi studiosi «moderati» emerge senza possibili dubbi quanto la guerra avesse rinsanguato il blocco dominante con i nuovi vincoli intessuti col capitale finanziario-industriale attraverso le commesse belliche e la disciplina militaresca della forza-lavoro.

Su queste premesse, alcune considerazioni generali non possono essere dimenticate. Il dopoguerra trova che — sulla strada della confluenza, di cui si è detto, fra il «nuovo» grande capitale ormai arrivato alla fase monopolistica e a propaggini internazionali e i «vecchi» centri di potere politico e amministrativo — si sta fortemente accentuando il carattere autoritario dello Stato. La canalizzazione del rapporto di comando dall'alto al basso sta diventando sempre più vincolante e al tempo stesso si va accelerando la meridionalizzazione dell'apparato burocratico. L'una e l'altra stanno producendo una più pesante e più estesa dipendenza dell'impiegato dal «vertice», un più grave distacco del «servizio» dal cittadino, un più largo accumulo di pericolose riserve di frustrazioni e di rivalsa, un più rigido asservimento di singoli burocrati e di gruppi politici al potere economico. Le esigenze di union sacrée, di compattezza nazionale imposte dal conflitto continuano inoltre a gravare di più pesanti ipoteche la cultura, che, in parte manipolata, in parte essa stessa vogliosa di manipolarsi nelle università, nelle accademie, nelle scuole, «serra i ranghi» per accreditare con più intransigente esclusivismo i «valori» del gruppo dominante, mentre la stampa subisce la metodica conquista da parte dei gruppi economici più potenti.

Se si guarda alle masse, l'immediato dopoguerra introduce in questo quadro il malcontento o il risentimento di cinque milioni di contadini che nella smobilitazione portano la cocente esperienza di uno sforzo durissimo, di una compressione spesso quasi bestiale, e la bruciante speranza nelle promesse della «terra a chi lavora». La rivoluzione d'ottobre, inoltre, continua a galvanizzare milioni dì operai, meno direttamente colpiti dal peso bellico ma dalla concentrazione dei posti di lavoro fatti pronti a dar battaglia con agitazioni e scioperi di massa al fronte padronale. Ora è vero che — come si è detto per decenni — nel «biennio rosso» gli scioperi (più quelli dei servizi pubblici, del resto, che quelli delle fabbriche) turbano la piccola borghesia e che i ceti medi intellettuali sono offesi dall'atteggiamento dei socialisti verso i combattenti. Ma non giova a un corretto calcolo delle priorità sottovalutare il fatto che questo «sentimento» acquistò peso politico soltanto quando i più forti detentori del potere economico decisero di considerare come porro unum il ripristino dell'«ordine». La difesa del sistema nel campo economico non passa attraverso le dottrine e i progetti sull'economia escogitati dai grandi operatori di questa, bensì attraverso l'intuizione — che va ben al di là del piano economicistico, ed è politica — che per salvare il potere economico si deve ripristinare l'«autorità», il «comando» globale. Il ralliement della piccola borghesia e dei ceti medi al fascismo acquista dimensioni degne di nota soltanto dopo e in conseguenza della scelta che i grandi agrari e un crescente numero di grossi industriali operano contro una politica riformistica alla Giolitti e per una politica di repressione, mettendo denari, influenze sociali, stampa per trasformare il «sentimento» di cui si è parlato in «violenza» organizzata, e la «violenza» per così dire artigianale in una più sistematica e ben altrimenti potente «violenza» strategicamente programmata, nella quale procedono in parallelo, e spesso convergono, sia le armi private delle «squadracce», sia gli uffici, i tribunali, le armi di uno Stato che ha perfezionato la sua carica repressiva con l'esercizio del controllo autoritario nel tempo bellico.

Se già poche settimane dopo la nascita dei «Fasci di combattimento» l'amministratore delegato dell'Uva individua in Mussolini uno strumento utile a questa politica, negli anni seguenti è un crescendo, con poche pause, di iniziative e decisioni nel senso di una scelta che porta, attraverso la «grande paura» dell'occupazione delle fabbriche, alla marcia su Roma. Il bandolo non è certo tenuto dalla piccola borghesia e dai ceti medi, il cui supporto è importante ma subalterno. È tenuto da coloro che soli hanno gli strumenti per condurre una sistematica campagna di organizzazione del consenso contro il «pericolo rosso», di presentazione a senso unico del dilagare delle violenze, in modo e misura tali da battere in breccia, nel nome della lotta agli «opposti estremismi», il solo estremismo che li spaventa, quello di sinistra. Se si può pensare che l'allineamento dei «vertici» dello Stato avvenga per moto spontaneo (ma è vero solo in parte), non si può sostenere che senza l'informazione interessata degli organi controllati dal grande capitale l'adesione dei medi e dei piccoli sarebbe stata così rapida e così vasta. L'appoggio dei ceti medi, perseguito e raggiunto in due anni di sforzi dalle «forze» che veramente contano, è per queste chiaramente un mezzo: l'esame dei giornali mostra l'abilità e la flessibilità nell'usare le motivazioni più diverse, ma anche il coordinarsi di queste in una direzione che, sia pure di fatto, alimenta giorno per giorno il fascismo «strisciante». Esso nasce da quest'opera, della quale è parte organica il concorso di coloro che dall'alto dello Stato accentrato controllano burocrazia, esercito, polizia e magistratura, mentre le simpatie autoritarie di Pio XI aggiungono dall'esterno l'esplicito avallo di un'enorme forza, quella della Chiesa, con la quale l'Italia liberale aveva assai tardi cominciato a patteggiare, e in una misura insufficiente. Ma l'Italia liberale stessa fiancheggia e prepara nei suoi esponenti più influenti e in quelli minori il «governo dell'ordine» — l'elenco dei nomi sarebbe interminabile — e, quando esso vacilla sotto i colpi dell'indignazione per l'assassinio di Matteotti, rifiuta il ricorso alla violenza dal basso e si rifugia in una «attendismo» che, come quello del '43'44, è oggettivamente un aiuto della massima efficacia al trionfo del fascismo. La «preoccupazione giuridica», la difesa dei «principi eterni della giustizia» sono il manto che copre la volontà di non recidere, pur nel contrasto politico-istituzionale, il cordone ombelicale fra i dirigenti dell'Italia liberale e la classe economicamente dominante che ha scelto il regime. Più lampante — e più dolorosa — prova dell'insufficienza d'ogni spiegazione che si basi sul consenso «legale», sulle «idee», non si potrebbe dare. La vittoria di Gentile su Croce, l'allinearsi fino dal 1925 della cultura italiana al fascismo — la storia dell'Enciclopedia italiana ne è uno dei più clamorosi segni — mostrano quale sia il peso delle «idee» e quale quello delle «forze». Insistere sulla definizione del fascismo come regime dei ceti medi — bisogna dunque ribadire — è un errore perché per sé soli essi non ebbero la forza non solo di condurre al governo il fascismo, ma ancor meno di vincere la partita per il potere. Anche quella che fu definita l'ideologia dei ceti medi, il nazionalismo, si impose come ideologia del movimento mussoliniano quando venne fatta propria dai grossi gruppi di potere economico. E questi la fecero propria quando vi videro la giustificazione teorica globale di una «disciplina sociale» fondata sulla «collaborazione tra capitale e lavoro». Anche negli anni seguenti il '25, del resto, essa, quale Leitmotiv dello Stato corporativo, si presterà assai meglio delle dottrine liberali a coprire le esigenze di controllo della forzalavoro e di strutturazione gerarchica del ciclo produttivo proprie della fase di sviluppo industriale in corso in quegli anni. In questo senso si può accettare la definizione del fascismo come «coerente versione di massa del moderatismo conservatore in' età di suffragio universale e di sviluppo delle forze produttive». Nel senso, cioè — è bene ripeterlo — in cui il regime, di là dal velame ideologico, ripaga gli industriali con la definitiva abolizione dell'obbligo della nominatività dei titoli e il salvataggio dell'Ansaldo e del Banco di Roma, con la compressione dei salari, con l'eliminazione di fatto dello sciopero, col pieno controllo della forzalavoro: per cui già nel 1922-23 anche chi, come un Giovanni Agnelli, non aveva ancora scelto interamente i fascisti, s'avvia sulla strada che lo vedrà, sia pure con le cautele del «giocatore prudente», alleato strettissimo della dittatura.

Guido Quazza, Introduzione. Storia del fascismo e storia d'Italia, in AA.VV., Fascismo e società italiana, a cura di G. Quazza, Einaudi, Torino, 1973.

 

 

De Felice: fascismo e ceti medi

la nuova interpretazione della specificità fascista

A costo di qualche inevitabile schematizzazione, cercheremo di riassumere gli elementi che, a nostro avviso, si debbono tenere presenti per comprendere storicamente il fenomeno fascista.

Il primo di questi elementi è di tipo geografico-cronologico: il fascismo è stato un fenomeno europeo che si è sviluppato nell'arco di tempo racchiuso dalle due guerre mondiali. Precondizioni, radici indubbiamente preesistevano alla prima guerra mondiale, sotto un profilo sia morale sia sociale. Esse erano però strettamente legate alla situazione culturale ed economica dell'Europa (e soprattutto di alcuni suoi paesi). Ogni confronto con situazioni extraeuropee, anche successive, anche attuali, è impossibile data la radicale differenza dei contesti storici (nel senso più estensivo del termine). Queste precondizioni e radici erano però «marginali» e nulla autorizza a pensare che si sarebbero sviluppate senza la crisi traumatica determinata, direttamente e indirettamente, dalla prima guerra mondiale e dalle sue conseguenze, immediate e a più lunga scadenza (grande crisi del 1929). La crisi determinata dalla guerra fu la sola e vera causa del loro erompere e del loro estendersi a gruppi sociali che ne erano stati sino allora immuni e diede ad esse la forza o l'esasperazione di nuovi contenuti aggiuntivi, sia morali e politico-morali, sia economico-sociali. Sicché nel dopoguerra la crisi divenne attiva e generale e investì, sia pure con manifestazioni diverse, tutto l'assetto della società, in tutte le sue stratificazioni e in tutti i loro rispettivi valori. Ma, detto questo, bisogna subito mettere in guardia dal trarre da questa constatazione conclusioni troppo estensive. La crisi ebbe nei vari paesi manifestazioni e dimensioni diverse, connesse sia alle peculiari situazioni (attuali e storielle) di essi, sia alla capacità, alle colpe e agli errori — per dirla con Chabod — degli uomini d'allora, delle classi dirigenti tradizionali ma anche dei partiti politici che affondavano le loro radici e traevano le loro forze in classi e ceti sociali diversi da quelli che esprimevano le classi dirigenti, si rifacevano ad altre tradizioni e auspicavano diversi sbocchi della crisi. Lo sbocco fascista o autoritario che la crisi ebbe in alcuni paesi non fu affatto inevitabile, non corrispose affatto ad una necessità. Fu la conseguenza di una molteplicità di fattori, tutti razionali e tutti evitabili, di incomprensioni, di errori, di imprevidenze, di illusioni, di paure, di stanchezza e — solo per una minoranza — di determinazione, molto spesso per niente consapevole per altro degli sbocchi che effettivamente la propria azione avrebbe avuto.

Il secondo elemento che si deve tenere presente per comprendere storicamente il fenomeno fascista è quello relativo alla sua base sociale. Chi, come Croce, ha sostenuto che il fascismo non è stato espressione di una determinata classe sociale ma ha trovato sostenitori ed avversari in tutte le classi ha pienamente ragione. Anche più ragione ha però chi, come Fromm, ha osservato che, mentre nella classe operaia e nella borghesia liberale e cattolica è, in genere, prevalso verso il fascismo un atteggiamento negativo o rassegnato, il fascismo ha trovato i suoi più ardenti fautori nella piccola borghesia. Il rapporto fascismo-piccola borghesia e, più in genere, fascismo-ceti medi è infatti uno dei nodi essenziali del problema storico del fascismo, certamente per il momento dell'affermazione del fascismo stesso, ma, anche, per quello successivo. Non a caso ad esso è stato riservato ampio spazio, sia nella pubblicistica politica di qualsiasi orientamento e tendenza, sia nella letteratura storica e sociologica sul fascismo. Riassumendo al massimo, l'analisi di coloro che hanno posto l'accento su questo rapporto può essere così sintetizzata:

1) dopo la prima guerra mondiale in vari paesi europei, sia vincitori sia vinti, i ceti medi entrarono in un periodo di grave e in alcuni casi (come l'Italia e la Germania) di gravissima crisi; le cause di questa crisi erano in parte anteriori alla guerra, connesse cioè all'ormai avviato processo di trasformazione e di incipiente massificazione della società; in parte derivavano direttamente dalla guerra e dall'accelerazione del processo di trasformazione sociale in genere e della mobilità sociale (verticale soprattutto) in particolare provocata dalla guerra; in parte ancora esse erano la conseguenza dell'innesto su queste cause di altre, derivanti prima dalla crisi economico-sociale dell'immediato dopoguerra e successivamente dalla «grande crisi» del 1929;

2) sul piano economico-sociale, questa crisi dei ceti medi si manifestò in forme e misure parzialmente diverse a secondo si trattasse dei ceti medi tradizionali (agricoltori, commercianti, professionisti, piccoli imprenditori) che disponevano di una certa autonomia personale e costituivano una entità sociale abbastanza omogenea ed integrata, o di quelli di promozione più recente (impiegati, addetti al commercio, intellettuali salariati) che, invece, erano pressoché privi di autonomia personale e, in genere, erano assai scarsamente integrati; senza entrare in troppi particolari, si può dire però che tutti i ceti medi si trovavano a dover affrontare una società in rapida trasformazione e caratterizzata dall'affermazione crescente del proletariato e della grande borghesia e a doverla affrontare nelle condizioni economiche più svantaggiate (sì pensi all'inflazione, al carovita, alla falcidia dei redditi fissi, ai blocchi dei fitti, ecc.), nella maggioranza dei casi senza adeguati strumenti di difesa sindacale e in una situazione di progressiva perdita di status economico e sociale;

3) sul piano psicologico-politico, questa crisi dei ceti medi si manifestava in uno stato di frustrazione sociale che si traduceva assai spesso in una profonda irrequietezza, in un confuso desiderio di rivincita e in una sorda contestazione (che spesso assumeva toni eversivi e rivoluzionari) della società della quale essi si sentivano le maggiori se non le uniche vittime e che, spesso, avevano invece creduto che la guerra avrebbe dovuto finalmente aprire alla loro egemonia «democratica» e morale; in un primo momento questo stato di frustrazione avrebbe potuto essere sfruttato ed indirizzato dal movimento socialista per stabilire un'effettiva alleanza con una parte almeno dei ceti medi; gli errori dei partiti operai e la paura del bolscevismo fecero però imboccare a gran parte dei ceti medi la strada del fascismo, da essi inteso come un movimento rivoluzionario proprio, volto ad affermarli socialmente e politicamente sia contro il proletariato sia contro la grande borghesia;

4) in questo senso, per alcuni autori, il fascismo sarebbe stato il tentativo di dare politicamente vita ad una terza forza che si opponesse sia alla democrazia parlamentare dei paesi capitalistici sia al comunismo e che aveva il suo motore principale nei ceti medi in funzione di una loro affermazione in quanto autonoma realtà sociale; né il fatto che il fascismo rivolse i suoi colpi soprattutto contro il proletariato infirmerebbe questa interpretazione: sui tempi brevi, l'offensiva antiproletaria si spiegherebbe col fatto che sul momento i ceti medi si sarebbero sentiti socialmente e politicamente più minacciati dal proletariato che dalla grande borghesia e avrebbero quindi trovato un modus vivendi provvisorio con questa contro quello; sui tempi lunghi, poi, la tendenza di fondo riemergerebbe nella politica economica del fascismo italiano e tedesco che — pur senza rivoluzionare l'assetto sociale privatistico — tendevano a stabilire il proprio controllo sull'economia, ad espandere l'iniziativa pubblica e a trasferire la direzione economica dai capitalisti e dagli imprenditori privati agli alti funzionari dello Stato.

Se le si vuoi dare — come qualcuno pretende — il valore di una interpretazione complessiva del fenomeno fascista, questa analisi del rapporto ceti medi-fascismo è, a nostro avviso, troppo unilaterale e, quindi, inaccettabile. Come tutte le altre interpretazioni prospettate per spiegare il fascismo, essa sottovaluta infatti importanti aspetti della realtà fascista e ne trascura altri. [...]

Detto questo, dobbiamo per altro dire che, per comprendere storicamente i veri fascismi e in particolare quello italiano e quello tedesco (tra i quali, tuttavia, esistevano differenze notevoli, attribuibili ad almeno tre cause: i differenti caratteri dei due popoli, il fatto che nel nazionalsocialismo l'ideologia del Volk ebbe un ruolo, un fondamento e una tradizione tanto radicali quali nessuna altra componente delle altre ideologie fasciste ebbe neppure lontanamente e, infine, il diverso grado di totalitarizzazione della vita nazionale realizzato dai due regimi) e per distinguerli da altri movimenti, partiti o regimi che fascisti furono solo superficialmente o non lo furono per niente, per cogliere cioè quel famoso minimo comune denominatore di cui parlavamo all'inizio, il rapporto ceti medi-fascismo è a nostro avviso da tenere sempre ben presente. In caso contrario si perde la possibilità di cogliere la novità e la differenza (non solo tecnologiche e di intensità) del fascismo rispetto ai vari movimenti e regimi conservatori e autoritari che lo precedettero, lo accompagnarono e lo hanno seguito e, ancora, ci si lascia sfuggire la possibilità di comprendere la vera origine, i caratteri e i limiti del consenso che per anni il fascismo seppe realizzare sia in Italia sia in Germania attorno a sé in vasti settori dei due paesi e che sarebbe troppo semplicistico ed errato spiegare solo con il regime di polizia, il terrore, il monopolio della propaganda di massa. Si perde cioè la possibilità di capire i due aspetti forse più caratterizzanti il fascismo. I regimi conservatori e autoritari classici hanno sempre teso a demobilitare le masse e ad escluderle dalla partecipazione attiva alla vita politica offrendo loro dei valori e un modello sociale già sperimentati nel passato e ai quali viene attribuita la capacità di impedire gli inconvenienti e gli errori di qualche recente parentesi rivoluzionaria. Al contrario, il fascismo ha sempre teso (e da ciò ha tratto a lungo la sua forza) a creare nelle masse la sensazione di essere sempre mobilitate, di avere un rapporto diretto col capo (tale perché capace di farsi interprete e traduttore in atto delle loro aspirazioni) e di partecipare e contribuire non ad una mera restaurazione di un ordine sociale di cui sentivano tutti i limiti e l'inadeguatezza storica, bensì ad una rivoluzione dalla quale sarebbe gradualmente nato un nuovo ordine sociale migliore e più giusto di quello preesistente. Da qui il consenso goduto dal fascismo. Un consenso che, per altro, può essere veramente capito e valutato solo se si mettono in luce i valori (morali e culturali) che lo alimentavano e l'ordine sociale ipotizzato che lo sosteneva: gli uni e l'altro tipici dei ceti medi e di quei limitati settori del resto della società sui quali l'egemonia culturale dei ceti medi riusciva in qualche misura ad operare. Un consenso, dunque, vasto ma non vastissimo, facile ad infrangersi sulle secche di una troppo prolungata stasi del progresso sociale e che — in mancanza di questo — poteva essere alimentato solo con il ricorso a succedanei irrazionali e proiettati al di fuori della società nazionale, quali, in Germania, il mito della superiorità della razza ariana e, in Italia, quello dei diritti della nazione «proletaria» e «giovane» da far valere contro le nazioni «plutocratiche» e ormai «vecchie»: non a caso, tutti e due miti tipicamente piccolo-borghesi. [...]

Da quanto abbiamo detto risulta implicitamente l'insostenibilità della tesi di coloro che hanno voluto vedere nel fascismo un momento, spesso il momento culminante, della reazione capitalistica e antiproletaria e, addirittura, ne hanno parlato come di uno sbocco inevitabile del capitalismo giunto alla fase della sua senescenza. Che nel fascismo si debba vedere una manifestazione della lotta di classe e non solo di quella «bilaterale» della piccola borghesia ma anche di quella della borghesia capitalistica non saremo certo noi a contestarlo. Il problema è quello di non ridurre tutto ad essa e non pretendere di spiegare tout court il fascismo in questa chiave. E ciò per almeno tre motivi. Il primo perché, come si è visto, l'elemento caratterizzante il fascismo e che ne permise il rafforzamento furono i ceti medi e, quindi, bisognerebbe prima dare una convincente spiegazione di come, nonostante il sovversivismo, il rivoluzionarismo, l'anticapitalismo di essi, la borghesia capitalistica riuscisse ad egemonizzarli sin dall'inizio. Il secondo perché — come ha riconosciuto persino un trotzkista come Guérin — la borghesia capitalistica non ebbe verso il fascismo un atteggiamento univoco. Quella che, secondo Guérin, sarebbe ricorsa alla soluzione fascista per stornare la minaccia rivoluzionaria e riconquistare le posizioni perdute con la crisi sarebbe stata l'ala costituita dai «magnati dell'industria pesante (metallurgica e mineraria) e dai banchieri che avevano interessi nell'industria pesante»; mentre l'ala costituita dall'«industria leggera o industria di trasformazione» avrebbe assunto un atteggiamento «di riserva e talvolta persino di ostilità» nei confronti del fascismo, non ne avrebbe desiderato affatto il trionfo, non sarebbe stata aliena dal trovare un modus vivendi con i propri dipendenti e — incapace di sbarrare la strada al fascismo — sarebbe stata solo alla fine indotta «dalla solidarietà di classe ad accantonare ogni diversità di interessi» e si sarebbe «rassegnata» al successo fascista. [...] Il terzo perché, andando oltre questa distinzione tra settori, in realtà nulla può dimostrare che il vero interesse di fondo del capitalismo fosse quello di portare al potere il fascismo, una forza ambigua, potenzialmente se non sostanzialmente estranea al capitalismo stesso e che anche egemonizzata, nascondeva rischi notevoli e — come i fatti dimostrarono (in Germania soprattutto ma anche in Italia) — perseguiva obiettivi che sarebbero diventati via via sempre più divergenti da quelli naturali del capitalismo.

 

Renzo De Felice, II fascismo. Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, Bari, Laterza, 1970.