Kant

Testi salienti di Kant

La “rivoluzione copernicana” in filosofia

«Finora si è creduto che ogni nostra conoscenza debba regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi, condotti a partire da questo presupposto, di stabilire, tramite concetti, qualcosa a priori intorno agli oggetti, onde allargare in tal modo la nostra conoscenza, sono andati a vuoto.

è venuto il momento di tentare una buona volta, nel campo della metafisica, il cammino inverso, muovendo dall'ipotesi che siano gli oggetti a dover regolarsi sulla nostra conoscenza; ciò si accorda meglio con la auspicata possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, la quale affermi qualcosa nei loro riguardi prima che ci vengano dati.

Qui le cose stanno né più ne meno come con i primi pensieri di Copernico; il quale, incontrando difficoltà insormontabili nello spiegare i movimenti celesti a partire dall'ipotesi che l'insieme ordinato degli astri ruotasse intorno allo spettatore, si propose di indagare se le cose non procedessero meglio facendo star fermi gli astri e ruotare lo spettatore intorno a loro. Nella metafisica un tentativo del genere può essere messo in atto per quanto riguarda l'intuizione degli oggetti. Se l'intuizione si deve regolare sulla costituzione degli oggetti, non vedo come sia possibile saperne qualcosa a priori; se invece è l'oggetto (in quanto oggetto sensibile) a doversi conformare alla natura della nostra facoltà intuitiva, posso immaginare benissimo questa possibilità. Poiché non posso arrestarmi ad intuizioni di questo genere, se debbono divenire conoscenze, ma debbo riferirle come rappresentazioni ad alcunché quale oggetto, da determinarsi tramite loro, non mi resta che o ritenere che i concetti, mediante i quali attuo questa determinazione, si regolino come tali sull'oggetto - nel qual caso ricado nella stessa difficoltà, circa il modo in cui mi sia dato conoscere alcunché a priori - oppure, all'opposto, ritenere che gli oggetti, o anche, il che fa lo stesso, l'esperienza nella quale soltanto possono venire conosciuti (in quanto oggetti dati), si regolino su questi concetti. In questo caso mi pare che la via d'uscita sia più facile, poiché l'esperienza è come tale una sorta di conoscenza tale da richiedere l'intelletto, la cui regola debbo presupporre in me, ancor prima che mi siano dati gli oggetti, e cioè a priori; e questa regola si concreta in concetti a priori, rispetto ai quali tutti gli oggetti dell'esperienza debbono regolarsi, e coi quali debbono accordarsi.» (Critica della ragion pura, Prefazione, II Edizione).

Spazio e tempo cosa sono?

«Che sono dunque spazio e tempo? Sono forse entità reali? O sono semplicemente determinazioni, o anche rapporti, delle cose, tali comunque da appartenere anche alle cose in sé, quand'anche non fossero intuite? Oppure sono tali da appartenere soltanto alla forma dell'intuizione, e quindi alla costituzione soggettiva nostro animo, senza di che questi predicati non potrebbero venir attribuiti a cosa alcuna? [...].

Tempo e spazio sono due sorgenti conoscitive, a cui è possibile attingere a priori svariate conoscenze sintetiche, delle quali ci offre un esempio luminoso la matematica pura, per quanto concerne la conoscenza dello spazio e dei suoi rapporti. Posti assieme, essi sono forme pure di tutte le intuizioni sensibili, e in questa veste rendono possibili proposizioni sintetiche a priori. Ma queste sorgenti conoscitive a priori, non essendo altro che condizioni della sensibilità, si determinano per ciò stesso i loro limiti, consistenti nel riferirsi agli oggetti solo in quanto vengano considerati come fenomeni, senza pretendere di esibire cose in sé. Il campo della loro validità è circoscritto ai fenomeni, uscendo dai quali non è più dato alcun uso oggettivo di queste sorgenti conoscitive.

Questa realtà dello spazio e del tempo nulla toglie del resto alla sicurezza della conoscenza sperimentale, poiché la certezza che ne abbiamo non muta se queste forme ineriscono alle cose in sé oppure solo alla nostra intuizione delle cose, purché in modo necessario. Quanti invece sostengono la realtà assoluta dello spazio e del tempo, la considerino sussistente o solo inerente, non possono fare a meno di entrare in conflitto. con i principi dell'esperienza.» (Critica della Ragion Pura, Estetica, § 7)

PENSIERO ED ESPERIENZA

i due fattori dell'esperienza

Non c'è dubbio alcuno che ogni nostra conoscenza incomincia con l'esperienza; da che mai infatti la nostra facoltà di conoscere sarebbe altrimenti messa in moto se non da parte di oggetti che colpiscono i nostri sensi, e da un lato determinano le rappresentazioni, mentre dall'altro mettono in moto cattività del nostro intelletto a raffrontare queste rappresentazioni, a unirle o a separarle, e ad elaborare in tal modo la materia prima delle impressioni sensibili, in vista di quella conoscenza degli oggetti che si chiama esperienza? Quanto al tempo, pertanto, nessuna conoscenza precede in noi l'esperienza, e tutte incominciano con lei.

Ma benché ogni nostra conoscenza incominci con l'esperienza, da ciò non segue che essa derivi interamente dall'esperienza. Potrebbe infatti avvenire che la nostra stessa conoscenza empirica fosse un composto di ciò che riceviamo mediante le impressioni e di ciò che la nostra facoltà conoscitiva vi aggiunge da sé sola (semplicemente stimolata dalle impressioni sensibili); aggiunta, questa, che non distinguiamo da quella materia primitiva, fintantoché un lungo esercizio non ce ne abbia resi consapevoli, ponendoci in grado di separare i due fattori.

Vi è dunque almeno una questione bisognosa di un ulteriore esame, e di cui non è possibile sbrigarsi a prima vista, e cioè se esista una simile conoscenza, indipendente dall'esperienza ed anche da ogni impressione sensibile. Tali conoscenze sono dette a priori e sono distinte dalle empiriche, che hanno la loro sorgente a posteriori, ossia nell'esperienza. (Ibidem, Introduzione, I).

universalità e necessità sono i contrassegni delle conoscenze pure a priori

Ciò che ora ci occorre è un segno distintivo per separare con sicurezza una conoscenza pura da una empirica. Certamente l'esperienza ci insegna il modo in cui una cosa è fatta, ma non ci dice che non può essere fatta diversamente. In primo luogo , dunque, se una proposizione viene pensata assieme alla sua necessità , è un giudizio a priori; se per di più deriva esclusivamente da un'altra proposizione che abbia a sua volta valore di proposizione necessaria, la proposizione è assolutamente a priori. In secondo luogo, l'esperienza non conferisce mai ai suoi giudizi una universalità autentica e rigorosa, ma semplicemente una universalità presunta e comparativa (per induzione), sì che si deve propriamente dire: stando a quanto abbiamo finora osservato, non risulta alcuna eccezione a questa o a quella regola. Quando dunque un giudizio venga pensato con rigorosa universalità, cioè in modo tale da non tollerare eccezione di alcun genere, esso non deriva dall'esperienza, ma è valido assolutamente a priori.(Ibidem, Introduzione, Il).

la conoscenza umana richiede l'esistenza di giudizi e di concetti a priori

Orbene, è facile dimostrare che nella conoscenza umana si danno effettivamente simili giudizi, necessari e universali nel senso più rigoroso, e quindi puri a priori. Se si vuole un esempio ricavato dalle scienze, non si deve far altro che prendere in esame tutte le proposizioni della matematica; se si vogliono esempi ricavati dal più comune uso dell'intelletto, può bastare la proposizione che ogni mutamento deve avere una causa; in quest'ultima proposizione, anzi, il concetto stesso di una causa contiene cosi palesemente il concetto di una necessità della connessione con un effetto e di una rigorosa universalità della legge, che esso andrebbe del tutto perduto se si pretendesse ricavarlo, come fece Hume, dal ripetuto associamento di ciò che accade con ciò che precede, e dalla conseguente abitudine (e perciò da una necessità semplicemente soggettiva) di connettere talune rappresentazioni. Anche senza far ricorso a simili esempi per stabilire la effettiva sussistenza di princìpi a priori della nostra conoscenza, si potrebbe dimostrare che essi sono indispensabili per la stessa possibilità della nostra esperienza, dandone così una prova a priori. Donde mai, infatti, l'esperienza trarrebbe la sua certezza se le regole secondo cui essa procede fossero in ogni caso empiriche e quindi contingenti? Come potrebbero in questo caso fungere da princìpi? Ma qui possiamo accontentarci di aver esposto come un fatto l'uso puro della nostra facoltà di conoscere, assieme ai segni che lo contraddistinguono. Non solo però nei giudizi, ma anche nei concetti si rivela l'origine a priori di taluni di essi. Se infatti togliete a poco a poco dal concetto di un corpo, fornitovi dall'esperienza, tutto ciò che vi è di empirico, ossia il colore, la durezza, la mollezza, il peso e la stessa impenetrabilità, rimane pur sempre lo spazio che il corpo occupava (e che si è ora del tutto dileguato), spazio che non può venir soppresso. Egualmente, se sottraete al vostro concetto empirico di un qualsiasi oggetto, corporeo o non corporeo, tutte le proprietà insegnatevi dall'esperienza, non vi è tuttavia possibile sottrargli quella mediante cui lo pensate come sostanza o come inerente ad una sostanza (benché questo concetto possegga una determinazione maggiore di quello di oggetto in generale). Guidati dalla necessità con cui questo concetto vi si impone, non potete non riconoscere che esso ha la sua sede nella vostra facoltà di conoscere a priori.(Ibidem, Introduzione, II).

recettività delle impressioni sensibili e attività del pensiero

La nostra conoscenza trae origine da due sorgenti fondamentali dell'animo, di cui la prima consiste nel ricevere le rappresentazioni (la recettività delle impressioni), e la seconda è la facoltà di conoscere un oggetto tramite queste rappresentazioni (spontaneità dei concetti). Per mezzo della prima un oggetto ci è dato, per mezzo della seconda esso viene pensato in rapporto a quella rappresentazione (come semplice determinazione dell'animo). Intuizione e concetti costituiscono pertanto gli elementi di ogni nostra conoscenza: per modo che non ci può venir data la conoscenza né dai concetti senza una intuizione che loro corrisponda in qualche modo, né dall'intuizione senza concetti.(Ibidem, Logica, Introduzione, I).

I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche.

Se vogliamo chiamare sensibilità la recettività del nostro animo nel ricevere rappresentazioni, in quanto viene in qualche modo modificato, daremo invece il nome di intelletto alla capacità di produrre spontaneamente rappresentazioni, ossia alla spontaneità della conoscenza. La nostra natura è tale che l'intuizione non può mai essere che sensibile, ossia tale da non contenere che il modo in cui veniamo modificati dagli oggetti. Per contro, la facoltà di pensare l'oggetto dell'intuizione sensibile è l'intelletto. Nessuna di queste due facoltà è da anteporsi all'altra. Senza sensibilità nessun oggetto ci verrebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato.

I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. è quindi egualmente necessario rendere sensibili i propri concetti (ossia aggiungere loro l'oggetto nell'intuizione), e rendersi intelligibili le proprie intuizioni (ossia sottoporre a concetti). Queste due facoltà, o capacità, non possono scambiarsi le loro funzioni. l'intelletto non può intuire nulla, ed i sensi nulla pensare. Solo dalla loro unione può scaturire la conoscenza.(Ibidem, Logica, Introduzione, I).