Platone teoretico

Interviste a E. BERTI, T.Szlezák

PLATONE, Fedone, 99 c d: "SOCRATE: Ora io mi sarei fatto, col più grande piacere, discepolo di chiunque, per poter apprendere quale sia questa causa! Ma, poiché me ne vidi privo, e non potei né trovarla da me, né impararla da altri, vuoi tu, Cebete, che ti esponga la seconda navigazione che intrapresi per andare alla ricerca di questa causa?
CEBETE: Altro che, se lo voglio"

BERTI: Sulla scorta degli insegnamenti del suo maestro Socrate, Platone compie un grandioso tentativo di cogliere l'essenza delle realtà, di dare alla conoscenza un ancoraggio oggettivo fondato sulle capacità dell'intelletto umano, superando il relativismo e il soggettivismo dei sofisti e il mondo sensibile cui questi erano rimasti ancorati. In uno dei suoi dialoghi più decisivi, il Fedone, Platone, per descrivere il grande passaggio che lo ha portato dal mondo fisico a quello metafisico, si serve delle metafore della seconda navigazione. Quando calavano i venti per far procedere la nave i marinai nell'antichità ammainavano le vele e ricorrevano ai remi: era questa la seconda navigazione. Con questa metafora Platone vuol dire che, dopo aver proceduto per via empirica con i sensi, deve ricorrere ad un altro mezzo, ad un'altra facoltà. Platone deve ricorrere all'intelletto e questo lo mette in contatto con le idee.


DOMANDA: In che cosa consiste la dottrina platonica delle idee?

BERTI: Nel Fedone Platone introduce le idee soprattutto per una esigenza di carattere epistemologico: per giustificare l'esistenza della scienza. Egli pensa in particolare alla matematica, più precisamente ancora alla geometria, e nota come la matematica si serve di concetti, ad esempio il concetto di "uguale", i quali non hanno un corrispettivo nella realtà empirica; noi nel mondo dell'esperienza in cui viviamo non incontriamo mai due cose perfettamente uguali, tuttavia la matematica usa il concetto di uguale ed è scienza.

Questo significa, secondo Platone, che deve esistere, in un mondo diverso dal mondo empirico, qualche cosa che costituisca l'oggetto di questa conoscenza, di questa scienza. Questo oggetto egli lo chiama idea usando un termine già diffuso nella lingua greca che in genere serviva a indicare l'aspetto visibile di qualche cosa, e che in Platone assume il significato di aspetto pensabile, intelligibile della realtà.
Nel Parmenide la dottrina nasce per motivi analoghi, cioè per spiegare come una stessa realtà, uno stesso soggetto empirico possa partecipare di caratteri diversi, cioè possa avere in sé anche una molteplicità, e l'idea serve a spiegare questa compresenza di aspetti diversi in una medesima realtà: anche questa è una esigenza di carattere epistemologico.
Non va dimenticato tuttavia che, specialmente nei primi dialoghi, Platone fa nascere le idee anche da una esigenza di ordine etico, penso soprattutto all'Eutifrone, agli altri dialoghi cosiddetti "socratici" in cui si cerca la definizione di una virtù e si introduce il termine idea proprio come il criterio alla luce del quale sia possibile riconoscere quali azioni sono virtuose e quali non lo sono. Questo criterio diventa una specie di modello. Platone dice che l'idea è ciò guardando a cui come ad un modello noi siamo in grado di riconoscere quali azioni sono sante o non lo sono, quali azioni sono giuste, quali azioni sono belle e via dicendo.

PLATONE, Fedone, 100 c-e: "SOCRATE: E allora, se uno mi dice perché una qualunque cosa è bella, sostenendo che è bella o perché ha un colore brillante o perché ha una sua figura o comunque per altre proprietà dello stesso genere, ebbene, io tutte queste altre cause le lascio perdere, perché in esse tutte mi confondo; e mi tengo fermo a questa mia, sia pure semplice e grossolana e forse anche sciocca: e cioè che niente altro fa sì che quella tal cosa sia bella, se non la presenza o la comunanza di questo bello in sé, o altro modo qualunque onde questo bello lo aderisce. Perché io non insisto affatto su questo modo, e dico solo che tutte le cose belle sono belle per il bello. E questo pare a me che sia l'argomento più sicuro per rispondere a me stesso e ad altri; e, tenendomi stretto a questo, penso che non potrò mai cadere, e che per me e per ogni altro la cosa più sicura da rispondere sia questa, che le cose belle sono belle per il bello"

SZLEZÁK: L'idea platonica è una risposta a problemi diversi. Si è parlato dell'"economia" della dottrina delle idee, secondo cui essa sarebbe una teoria che intende ottenere molto con l'impiego di pochi mezzi. Altri hanno invece criticato la presunta "economia" della dottrina delle idee, ed hanno affermato che con essa si intendeva dare risposte a questioni distinte - che era meglio tenere separate - usando un unico strumento, non adeguato a tutte le domande.
Un aspetto molto importante dell'idea è quello epistemologico, quello logico. L'idea è l'Uno che dà ai fenomeni la loro unità. Con la partecipazione all'unità dell'idea, i molteplici oggetti percepibili diventano quello che essi sono. L'idea è però al tempo stesso modello perfetto di quello che rappresenta, e grazie alla sua perfezione ed immutabilità si differenzia dalle cose sensibili che partecipano ad essa. Nel campo etico le idee sono immediatamente anche norme. L'idea della giustizia è per Platone essa stessa giusta; questo ha comportato un problema logico supplementare, che ha occupato per lungo tempo la ricerca. Le idee in un certo senso sono causa delle cose, solo che è difficile dire in quale senso lo siano.

PLATONE, La Repubblica, 506 c-d:
"SOCRATE: Non sai che gli occhi, quando uno non li volge più agli oggetti rischiarati nei loro colori dalla luce diurna, ma a quelli rischiarati dai lumi notturni, si offuscano e sembrano quasi ciechi, come se non fosse nitida in loro la vista?
GLAUCONE: Certamente
SOCRATE: Ma quando, credo, uno li volge agli oggetti illuminati dal sole, vedono distintamente e la vista, che ha sede in questi occhi medesimi, appare nitida.
GLAUCONE: Sicuro!
SOCRATE: Allo stesso modo considera anche il caso dell'anima, così come ti dico. Quando essa si fissa saldamente su ciò che è illuminato dalla verità e dall'essere, ecco che lo coglie e lo conosce, ed è evidente la sua intelligenza; ma quando invece si fissa su ciò che è misto di tenebra e che nasce e perisce, essa allora non ha che opinioni e s'offusca, rivolta in su e in giù, mutandole, le sue opinioni, e rassomiglia a persona senza intelletto"


BERTI: Io credo chen per soddisfare alle esigenze soprattutto di carattere scientifico, epistemologico, che hanno determinato il sorgere di questa dottrina, l'idea deve essere concepita come una realtà trascendente il mondo dell'esperienza, separata, perché i caratteri che l'idea possiede (universalità, immutabilità, eternità) non coincidono con i caratteri della realtà empirica, la quale invece per Platone è costituita proprio da un continuo fluire, da un continuo mutare. Bisogna però fare attenzione a non fraintendere questa trascendenza come è accaduto talvolta a cominciare da Aristotele. Aristotele, pur sottolineando con molta decisione la trascendenza delle idee, a volte tende a farne quasi degli individui separati da quelli sensibili; egli stesso usa l'espressione "dei sensibili eterni". Questo non è certamente il senso che ha la trascendenza dell'idea in Platone perché l'idea non è una realtà individuale, non è una realtà sensibile e quindi non può essere concepita come una semplice riproduzione a livello intelligibile di ciò che esiste nel mondo dell'esperienza.
Va detto anche che le interpretazioni moderne che negano la trascendenza dell'idea sono state considerate ad un certo punto del tutto inaccettabili. Penso soprattutto all'interpretazione di Natorp e, in genere, della scuola neo-kantiana, che fa delle idee platoniche semplicemente dei concetti a priori, delle categorie mentali, mentre nei Dialoghi di Platone ci sono passi inequivocabili che mostrano come l'idea sia oggetto di pensiero. L'idea è qualche cosa che viene veduto, che viene visto, la stessa parola idea indica realtà vista. Alla interpretazione di Natorp ha reagito con molto successo in modo molto convincente Julius Stenzel il quale ha giustamente ricordato come l'idea richiami il termine tedesco Anschauung, cioè visione, implichi la visione di un oggetto, ma di un oggetto che, per le ragioni dette prima, non può essere, non può appartenere alla realtà sensibile.

PLATONE, Fedone, 75:
"SOCRATE: E' necessario che si sia conosciuto l'eguale prima di quel tempo in cui, visti per la prima volta
degli oggetti eguali, pensammo che tutti questi aspirano bensì ad essere qual è l'eguale, ma ne
restano alquanto in difetto.
SIMIA: Così è.
SOCRATE: Però conveniamo anche di questo: che non altronde siamo risaliti a questo concetto, né era possibile risalirvi, dalla vista o dal tatto o da qualche altro dei nostri sensi, che qui per me sono tutt'uno.
SIMIA: Tutt'uno difatti, Socrate, almeno per lo scopo a cui mira il nostro discorso.
SOCRATE: Ma sono senza dubbio i sensi quelli che ci fanno pensare che tutti gli oggetti, i quali cadono sotto di essi, aspirano ad essere ciò che è l'eguale, ma ne restano in difetto. O come bisogna dire?
SIMIA: Così.
SOCRATE: Prima, dunque, che cominciassimo a vedere, a udire e, insomma, a provare le altre sensazioni, noi dovevamo avere acquistato, dovechessia, la nozione di ciò che è l'eguale in sé, per riferire ad esso tutti gli oggetti che dai sensi ci risultavano eguali, e pensare che tutti aspirano ad essere qual è quello, ma ne sono da meno.
SIMIA: Dopo ciò che s'è detto, è necessario, Socrate.
SOCRATE: Ora, noi possedevamo subito, fin dalla nascita, e la vista, e l'udito, e tutti gli altri sensi?
SIMIA: Sicuro.
SOCRATE: E non affermiamo altresì che anche prima di quelli noi dovevamo possedere la nozione dell'eguale?
SIMIA: Certo.
SOCRATE: Sicché, a quanto pare, è necessario che l'avessimo acquistata prima d'esser nati"
PLATONE, Menone, 81c-d:
"SOCRATE: Per esser dunque l'anima immortale e molte volte nata e per aver visto ogni cosa e qui e nell'Ade,non c'è nulla che non abbia appreso; sicché non è punto meraviglia che possa ricordare, così intorno alla virtù come intorno ad altre cose, ciò che prima sapeva. Essendo infatti tutta la natura congenita ed avendo l'anima appreso tutto, nulla impedisce che chi si ricordi d'una sola cosa - il che poi è quel che si dice imparare - trovi da sé tutto il resto, ov'abbia coraggio e non si stanchi nella ricerca, perché il ricercare e apprendere non è che reminiscenza, anamnesi."


BERTI: Nel Menone Platone introduce molto abilmente la dottrina dell'anamnesi per risolvere un problema di geometria; egli cioè fa vedere come anche un giovane, uno schiavo, e quindi un giovane ignorante, ignaro di geometria, sia in grado, se guidato con domande appropriate, di pervenire da solo alla dimostrazione del teorema di Pitagora. Platone fa vedere questo per mostrare come vi sia nella mente umana la capacità di conoscere realtà che trascendono l'esperienza, addirittura di riconoscerle in modo da fugare ogni sospetto circa la loro possibile origine empirica; allargando questa tecnica illustrata nel Menone all'intera conoscenza delle idee, Platone in un altro dialogo, cioè nel Fedone, giunge ad affermare che noi conosciamo le idee, cioè la mente umana conosce le idee, non perché le abbia ricavate dall'esperienza ma perché le ha già viste prima di nascere, prima di venire in questo mondo, e ogni qual volta in questo mondo si trova a contatto con una realtà empirica la quale sia immagine di un'idea, questo incontro suscita nell'anima il ricordo, la reminiscenza ("anamnesi" significa appunto "reminiscenza") di quanto l'anima aveva conosciuto prima di nascere, cioè prima di entrare nel mondo dell'esperienza. Perciò ancora una volta la dottrina dell'anamnesi risponde ad una esigenza di carattere epistemologico: quella di mostrare l'indipendenza della conoscenza scientifica dal mondo dell'esperienza e quindi, metaforicamente, una sua origine che precede la stessa nascita , la stessa nascita dell'uomo e quindi l'ingresso dell'anima nel corpo mortale.

PLATONE, Fedro, 246:
"SOCRATE: In quanto all'idea dell'anima in sé, dire quale essa è richiederebbe per tante ragioni un'esposizione divina e interminabile, ma si può, per via umana e più breve, dire a che cosa somiglia; e contentiamoci di questo. Paragoniamola ad una congenita forza alata d'una coppia di cavalli e d'un auriga; ma i cavalli e gli aurighi divini son tutti buoni e di buon lignaggio; quelli degli altri, misti. E in primo luogo, nel caso di noi uomini, l'auriga guida, sì, la pariglia, ma dei suoi cavalli l'uno è eccellente e di razza eccellente, l'altro di pessima razza e pessimo esso stesso; e per conseguenza da noi l'opera dell'auriga non può non riuscire penosa e difficile. E qui dobbiamo provarci a chiarire, perché mai un essere vivente si dice mortale o immortale. L'anima tutta quanta prende cura di tutto quanto è inanimato, circola per tutto il cielo e assume ora una forma, ora un'altra. Fino a che è perfetta ed alata, si libra nell'alto e governa l'universo intero; ma se perde le ali, precipita giù, sino a che non intoppi in qualche cosa di solido, dove si ferma ad abitare. Assume così un corpo terreno, che per la forza comunicatagli da lei dà l'illusione che si muova di per sé; e questo complesso di anima e di corpo è chiamato essere vivente e per giunta mortale. Quanto alla denominazione d'immortale, la diamo noi, in seguito ad un ragionamento rigoroso, ma, pur non avendo né veduto né conosciuto sufficientemente il dio ce lo figuriamo come un essere vivo, immortale, dotato di un'anima e di un corpo eternamente connaturati fra loro. Ma di ciò sia e si dica quel che vuole il dio ; noi cerchiamo di penetrar la causa della caduta delle ali, poiché, cioè, l'anima le perda. E penso che possa essere questa: la virtù delle ali è quella di portare in alto ciò che pesa, sollevandolo sino alla sfera abitata dagli dei, e perciò più d'ogni cosa corporea essa partecipa del divino; e il divino vuol dire bellezza, sapienza, bontà e ogni altra cosa consimile. Di ciò soprattutto si nutrono e si fortificano le ali dell'anima; ma per effetto di quel che è turpe, cattivo e simile, si sciupano e periscono"


SZLEZÁK: La conoscenza delle idee ha il maggior grado di certezza possibile nell'ambito della conoscenza. Ma perché conoscere un'idea deve consistere nel rivedere ciò che è stato in precedenza? Questo è difficile da capire, e la moderna teoria della conoscenza non ha alcuno strumento per raffigurarsi il concetto di anamnesi. Si è addirittura avanzata l'ipotesi che Platone stesso abbia concepito l'anamnesi solo come un espediente, un concetto ingegnoso, non seriamente pensato fin dall'inizio. Non credo sia questa la spiegazione giusta, perché all'anamnesi è in ogni caso legata la dottrina dell'anima, la teoria metafisica dell'anima immortale, la quale preesiste e continuerà a vivere anche dopo la morte. Alla base del rapporto tra anamnesi e teoria metafisica c'è la convinzione secondo cui lo status di colui che conosce dovrebbe corrispondere allo status ontologico dell'oggetto della conoscenza. Per questo Platone parla dell'idea e dell'anima eterna. Ciò si collega a sua volta alla concezione escatologica. La conoscenza che possiamo acquisire è decisiva per il destino dell'anima nell'al di là. La spiegazione dell'anamnesi come semplice espediente, il tentativo di sottrarla al punto di vista epistemologico, non è soddisfacente perché in questo modo si rompe il legame della dottrina della conoscenza con l'escatologia e pertanto anche con l'etica. E questo va accettato, anche se non incontra il favore del pensiero moderno. Secondo Platone l'anima immortale esiste ed è portatrice di conoscenza. Così si spiega perché vengono ricercate le idee anche nella physis.
Come è stato precedentemente accennato, le idee non sono un costrutto, non sono la raffigurazione del reale, autonomamente prodotta dallo spirito umano per poter in qualche modo organizzare la realtà. La reminiscenza implica piuttosto la scoperta di qualcosa che è già sempre esistita. Per quanto concerne le dottrina dell'anima va aggiunto che anche noi possediamo già da sempre la modalità di accesso alla conoscenza. Ciò che qui viene espresso è la natura oggettiva della conoscenza delle idee.

PLATONE, La Repubblica, 509b-c:
"SOCRATE: Dirai, credo, che agli oggetti visibili il sole conferisce non solo la facoltà di essere visti, ma anche la generazione, la crescita e il nutrimento, pur senza essere esso stesso generazione.
GLAUCONE: E come potrebbe esserlo?
SOCRATE: Puoi dire dunque che anche gli oggetti conoscibili non solo ricevono dal bene la proprietà di essere conosciuti, ma ne ottengono ancora l'esistenza e l'essenza, anche se il bene non è essenza, ma qualcosa che per dignità e potenza trascende l'essenza."


BERTI: L'idea del bene, proprio perché è del bene, rivela l'istanza di carattere etico che sta alla base della teoria delle idee; se le idee sono altrettanti valori morali non c'è dubbio che l'idea suprema, quella da cui in qualche modo dipendono tutte le altre, dovrà essere il supremo valore morale, quello che Platone chiama il Bene. Il Bene per Platone è principio di tutte le altre idee nel senso che è causa sia della loro conoscibilità, sia della loro stessa essenza, ossia il bene è ciò che conferisce a tutte le altre idee la determinatezza che esse hanno.
Platone, come è noto, per illustrare questo rapporto ricorre ad una famosa immagine, quella del sole. Come il sole rende visibili le cose empiriche, illuminandole con la sua luce, così l'idea del bene rende intellegibili le altre idee; come il sole con il calore fa vivere gli animali, le piante che sono in questo mondo, così l'idea è causa dell'essere, dell'esistenza e dell'essenza, di tutte le altre idee; per questo essa è, a mio modo di vedere, il vero principio supremo di ogni realtà ammesso da Platone e per questo la filosofia, cioè la dialettica (in Platone filosofia e dialettica sono la stessa cosa) ha compiuto la sua opera soltanto quando è giunta a conoscere l'idea del bene. Il modo in cui essa vi giunge è appunto caratteristico, è una delle dottrina più significative di Platone, ed è il modo dialettico, il metodo dialettico che richiede una ulteriore illustrazione.

PLATONE, La Repubblica, 534b-d
"SOCRATE: Ora, non chiami tu dialettico chi si rende ragione dell'essenza di ciascuna cosa? E chi ne è capace, non negherai che, nella misura in cui non riesce a dar ragione a sé e ad altri, in tale misura ne abbia intelligenza?
GLAUCONE: E come potrei dirlo?
SOCRATE: Per il bene è lo stesso. Considera il caso di chi non sa definire razionalmente l'idea del bene, isolandola da tutto il resto; di chi, come in battaglia, superando ogni prova e sforzandosi di comprovare il suo punto di vista non secondo l'opinione, ma secondo l'essenza, non riesce tuttavia a superare tutti questi
ostacoli con la sua ragione infallibile: non dirai che un simile individuo non conosce il bene in sé né
alcun altro bene, ma che, se per caso ne coglie una immagine, la coglie con l'opinione, ma non con la
scienza? E che passa la sua vita presente in sogno e torpore e, prima ancora di risvegliarsi in questo
nostro mondo, giunge nell'Ade per dormirvi un sonno completo?"


DOMANDA: In un famoso passo della Repubblica Platone, a proposito del bene, lo definisce come "epèkeina tes ousias" cioè al di là dell'essere o dell'essenza; si tratta di uno dei passi che ha generato maggiori problemi interpretativi. Perché?

BERTI: A mio modo di vedere questo passo non presenta particolari difficoltà se si tiene presente che per Platone l'essere, l'ousia, cioè l'essere nel senso pieno, è il mondo delle idee perché solo le idee "sono", mentre le cose mutano, divengono, non "sono". L'idea del bene, essendo il principio di tutte le altre idee, cioè la causa sia della loro conoscibilità che del loro essere è, per questo stesso motivo, al di sopra dell'essere. Epèkeina tes ousias significa infatti "al di là", "al di sopra" dell'essere. Questo non significa che l'idea del bene "non sia", cioè non sia anch'essa essere; significa che è al di sopra di quell'essere che è costituito da tutte le altre idee. Essa è il principio stesso dell'essere. E' una dottrina molto importante perché ad essa si riallaccerà poi il cosiddetto neoplatonismo, soprattutto con Plotino nel III secolo d.C., quando il principio di tutta la realtà, cioè l'Uno, verrà posto ugualmente al di là dell'essere e quindi anche al di là del pensiero, della pensabilità, cosa che, a mio modo di vedere non si può invece dire per Platone, perché l'idea del bene in Platone è conoscibile, è appunto l'oggetto della dialettica.
Anzitutto è bene avere presente che cosa significa dialettica nel linguaggio comune per i greci: la dialettica è la capacità di discutere, di dialogare e questo è anche il significato che la dialettica ha in Platone, soprattutto nei primi Dialoghi, dove egli ci rappresenta le discussioni che avvenivano tra Socrate e i suoi vari interlocutori. Nel corso di queste discussioni in genere Socrate, attraverso una serie di domande rivolte al suo interlocutore, si faceva concedere una serie di premesse dalle quali egli ricavava delle contraddizioni con la posizione assunta inizialmente dai suoi interlocutori. Ricavare queste contraddizioni significa confutare, cioè dimostrare la falsità, l'insostenibilità di una determinata posizione. Quando poi Platone ebbe formulato la dottrina delle idee egli continuò a impiegare questo procedimento, che risaliva già a Socrate, al suo maestro, sia per mostrare la necessità delle idee, sia per risalire dalle idee al principio di tutte le idee e di tutta la realtà, cioè all'idea del bene. C'è un passo famoso nella Repubblica in cui egli dice che la dialettica per giungere a definire l'idea del bene non deve basarsi su ipotesi, come fa invece la matematica, ma deve distruggere le ipotesi, il che significa, a mio modo di vedere, metterle in discussione, cercare di confutarle e solo dopo essere passata attraverso tutte le confutazioni (questa è proprio un'espressione usata da Platone "dià panton elenchon diexion" passando attraverso tutte le confutazioni) la dialettica giunge a individuare il principio anipotetico, cioè quell'ipotesi che, unica, è riuscita a resistere a tutte le confutazioni. E il principio anipotetico è appunto l'idea del bene. Quindi è attraverso la dialettica, è sottoponendo a prove, a tentativi di confutazione tutte le possibili ipotesi che si perviene a scoprire un principio non-ipotetico, capace cioè di resistere ad ogni critica, ad ogni tentativo di confutazione.

PLATONE, Sofista, 253d -254b:
"FORESTIERO: Il distinguere secondo generi e non ritenere né la stessa forma per una diversa né una diversa per la stessa, non diremo forse che ciò sia proprio della scienza dialettica?
TEETETO: Si, lo diremo.
FORESTIERO: Chi, dunque, è capace di far questo saprà ben percepire l'unica idea che ne pervade in ogni senso molte altre, ciascuna delle quali distinta, e molte diverse tra loro e comprese per di fuori da una sola; come, a sua volta, quell'unica idea, che attraverso molte pluralità conserva la propria unità, nonché quelle distinte, assolutamente non collegate fra loro. Ora, sapere come le singole forme possano accomunarsi tra loro e come no, è per l'appunto saper distingure per generi.
TEETETO: Proprio così.
FORESTIERO: Ma la facoltà dialettica non l'attribuirai, credo io, a nessun altro, fuorché a colui che sappia filosofare con animo puro e giusto.
TEETETO: E chi potrebbe attribuirla ad un altro?
FORESTIERO: Il filosofo dunque lo troveremo in questo luogo e adesso e nel futuro, qualora lo cerchiamo, difficile a vedersi con chiarezza anche lui, ma d'un carattere diverso è la difficoltà del sofista e la sua.
TEETETO: Come?
FORESTIERO: L'uno, infatti, rifugiandosi nella tenebra del non essere, dove, come pratico, si muove a suo agio, data l'oscurità del luogo è difficile a lasciarsi scoprire... Non è vero?
TEETETO: Così pare.
FORESTIERO: Mentre il filosofo, aderendo sempre coi suoi ragionamenti all'idea dell'essere, per lo splendore del luogo non è punto facile ad esser visto; giacché gli occhi dell'anima nei più sono inetti a resister lungamente alla contemplazione del divino."

 


DOMANDA: Platone considera la matematica una via di accesso indispensabile alla dialettica. Quale significato egli attribuisce alla matematica?

BERTI: Non bisogna dimenticare che al tempo di Platone la matematica era l'unica scienza che fosse pervenuta a darsi uno statuto epistemologico compiuto, cioè l'unica scienza che avesse raggiunto propriamente il livello di scienza, cosa che non si poteva dire per la fisica, per la biologia, ecc. Questo fa sì che la matematica assuma un grande valore agli occhi di Platone; la matematica, appunto, è scienza, non è conoscenza empirica, è conoscenza dell'universale, è conoscenza di ciò che è vero sempre, cioè è conoscenza dell'eterno. Dunque la matematica aiuta la mente ad innalzarsi al di sopra della realtà empirica ed in questo senso costituisce il migliore allenamento, per usare un termine sportivo, allenamento della mente, dell'anima alla conoscenza delle idee. E' noto che Platone nella Repubblica prescrive ai futuri filosofi un lungo curriculum di studi in cui la matematica occupa la posizione preminente. Circa dieci anni di studi matematici sono necessari, secondo Platone, per potersi dedicare con successo alla filosofia. Al tempo stesso Platone è colui che indica per primo, con estrema chiarezza, quali sono i limiti della matematica, proprio perché la matematica è dimostrazione essa deve partire da presupposti, cioè da ipotesi e non è in grado di rendere ragione di queste ipotesi. Questo secondo Platone costituisce il suo limite, addirittura questo fa sì che essa, propriamente parlando, non possa nemmeno essere chiamata vera scienza; nella Repubblica infatti Platone dice che la matematica è dianoia, "pensiero discorsivo", non episteme, non "scienza" nel senso proprio, in quanto parte da presupposti e cioè non è in grado di rendere completamente ragione delle sue affermazioni.
Aristotele soleva raccontare l'impressione che provava la maggior parte di coloro che ascoltavano la conferenza di Platone attorno al bene. Ciascuno vi era andato pensando di poter apprendere uno di questi che sono considerati beni umani come la ricchezza, la salute, la forza e in generale una meravigliosa felicità. Ma quando risultò che i discorsi vertevano intorno a cose matematiche, numeri, geometrie, astronomia e da ultimo si sosteneva che il bene é l'uno, io credo che questo sia sembrato del tutto paradossale, di conseguenza alcuni la disprezzarono, altri la biasimarono. Oltre le cose sensibili e le idee, Platone dice che esistono come intermedi gli "enti matematici" i quali differiscono dalle cose sensibili per esser eterni ed immutabili e dalle idee perché di essi ce ne sono molti dissimili mentre quanto all'idea ciascuna é unica e soltanto se medesima.
In Platone al fianco della teoria delle idee culminanti nell'idea del bene si trova anche una problematica teoria dei principi, è come se Platone ad un certo punto nello sforzo di cogliere le strutture ultime della realtà, si fosse trovato di fronte a un elemento troppo statico, l'idea del bene appunto, qualcosa di paragonabile alla fissità dell'essere parmenideo. Per dar conto del divenire Platone introduce un altro principio.

SZLEZÁK: Unitamente al principio del Bene, il secondo principio, l'aóristos dyás, la dualità indeterminata, è particolarmente difficile da comprendere. La dualità indeterminata non è materia, ma neanche idea; tutto quello che ha natura ideale, proviene da un altro principio, dal Bene. Nonostante abbia detto che la dualità indeterminata non è materia, non si può trascurare il suo rapporto storico-concettuale con il concetto aristotelico di materia.
Heinz Happ lo ha dettagliatamente dimostrato nella sua grande opera Hyle. L'aóristos dyás è per così dire la possibilità della fluttuazione, della modificabilità, della disuguaglianza nella sua prima forma, nella sua forma più elementare. Si tratta dell'astrazione della disuguaglianza, dell'ánisóthes. Questa era infatti un'altra espressione platonica per indicare il secondo principio. Tutto quello che è eguale, stabile, duraturo evidente e pertanto, secondo Platone, buono, deriva infatti dall'Uno. Quello che non ha alcun legame con ciò è invece il risultato di un secondo principio, denominato da Platone dualità indeterminata. Credo che la dottrina dei due principi sia la forma moderna, la forma attica della concezione dei Pitagorici. I pitagorici si basano sui principi , prima del peras e dell'aperon, del limite e dell'illimitato. Nel Filebo Platone si fa espressamente a questi principi e anche la concezione secondo cui i numeri sono l'elemento primo sorto dalla delimitazione dell'illimitato ha i suoi presupposti nella filosofia pitagorica.

 

DOMANDA: Si è parlato dei princìpi. Come si può immaginare il rapporto dei princìpi con le idee e delle idee con quello che abitualmente viene chiamato il reale?

SZLEZÁK: Le testimonianze indirette descrivono tale rapporto come il processo delle progressiva delimitazione dell'illimitato. Tutto quello che ha il limite, e pertanto misura, ordine, identità, stabilità, deriva dal bene, dal principio positivo dell'Uno. Dalla sfera dell'aoristos dyas, immersa nel fluttuare infinito, possono essere per così dire, delimitate delle parti.
Una tale delimitazione implica la costituzione dell'essere. Quello che ha limite é conoscibile, è un'entità stabile, è un "on". L'elemento primo che qui si genera sono i numeri ideali. I numeri, dal canto loro, sono principi della strutturazione del mondo delle idee. Sarebbe molto importante per noi conoscere più dettagliatamente questa concezione. Purtroppo però a questo proposito ci sono grosse lacune anche nella tradizione indiretta.
Nonostante la continua polemica di Aristotele non sappiamo molto in concreto di questo teorema. Siamo solo a conoscenza del fatto che il teorema era stato concepito in un certo modo da Platone e dai suoi sostenitori. Questo é a mio parere un fatto certo. Aristotele concepisce il rapporto delle cose sensibili con le idee, e quello tra idee ed "en" in modo parallelo. Così come le idee sono la causa delle transeunti-esse sono quella causa per cui le cose divengono quel che sono e ricevono la loro unità ed identità limitata - anche le idee, a loro volta, ricevono la loro caratteristica dall'Uno. Stando alle descrizioni e testimonianze di Aristotele, il principio è la causa dell'essere delle idee, e l'idea è la causa dell'essere delle cose sensibili. Si tratta quindi della delimitazione progressiva dell'illimitato.


DOMANDA: Abbiamo delineato i due capisaldi dell'ontologia platonica la teoria delle idee e la teoria dei princìpi. Qual è il rapporto fra queste due parti del pensiero platonico?

BERTI: Per comprendere la teoria dei princìpi è necessario partire dalla fase della Teoria delle idee in cui queste vengono identificate con i numeri o ricondotte ai numeri. Nella concezione greca dei numeri, i numeri derivano dall'uno, che è principio, ma non derivano per addizione, come nella aritmetica a cui noi siamo abituati a pensare, bensì derivano dall'Uno per divisione. Io credo che per comprendere adeguatamente questo processo sia sufficiente ricordare come ciascun numero può essere definito come un rapporto tra due grandezze. Il numero due é il rapporto tra il doppio e la metà; il tre é il rapporto fra un terzo e il suo triplo; il quattro analogamente; cioè ciascun numero é un rapporto tra due grandezze una maggiore e una minore, una grande e una piccola. Nel momento in cui queste due grandezze non entrano tra di loro in un rapporto determinato non abbiamo ancora il numero, abbiamo soltanto un grande e un piccolo che sono fra di loro in un rapporto del tutto indeterminato. Questo é ciò che Aristotele chiama la "diade indefinita", cioè la diade formata da un grande e un piccolo che non sono ancora in un rapporto determinato. Non appena questo rapporto viene determinato e l'azione determinante non può che provenire dall'Uno, ecco che si genera il numero, cioè quando il rapporto diventati un mezzo, di un terzo, di un quarto si genera il due il tre il quattro; cioè i due principi posti da platone per le idee non sono altro che i principi dei numeri. Naturalmente le idee essendo ricondotte a numeri ideali, i principi dei numeri sono principi dei numeri ideali, attraverso questi sono principi delle idee e attraverso le idee sono principi anche delle realtà empiriche; per questo sono principi di tutta la realtà rispettivamente come principio di unità, di determinatezza e quindi di intelligibilità nel caso dell'Uno, e principio invece di molteplicità di indeterminatezza (in un certo senso anche di irrazionalità) nel caso della diade che ha appunto caratteri opposti all'Uno.

PLATONE, Timeo, 30 :
"TIMEO: Ebbene, diciamo quale fu la causa per la quale costituì la generazione e tutto questo universo colui che li costituì. Era buono, e in chi è buono non s'ingenera mai nessuna invidia per nessuna cosa; e, come colui che era immune da invidia, volle che tutte le cose fossero, per quanto si poteva, simili a lui. Chi dunque, sulla scorta d'uomini di gran senno, accetti questo principio del divenire del mondo come il meglio fondato, lo accetterà, credo, proprio a buon diritto. Giacché, volendo il dio che tutte le cose fossero buone e non ve ne fosse possibilmente nessuna d'inservibile, per questo appunto, dopo d'aver preso tutto quanto c'era di visibile, che non aveva requie, ma si agitava confusamente e disordinatamente, dal disordine lo condusse all'ordine, convinto che questo fosse in tutto migliore di quello. Ora, poiché all'ottimo non era e non è lecito far nulla che non sia bellissimo, dopo matura riflessione il dio trovò che di tutte le cose, secondo natura visibili, nessuna priva di intelligenza sarebbe per esser mai nel suo complesso più bella di ciò che nel suo complesso avesse intelligenza; e d'altro lato, era impossibile che intelligenza senz'anima si trovasse in qualsiasi cosa. In forza di questa riflessione, costituendo l'intelligenza nell'anima e l'anima nel corpo, costruì l'universo per farne possibilmente l'opera di sua natura più bella e migliore di tutte. Sicché secondo un ragionamento verosimile bisogna dire proprio così: che questo mondo è davvero un essere vivente fornito d'anima e d'intelligenza, creato dalla provvidenza divina."


DOMANDA: Nel Timeo accanto alle idee Platone colloca la figura del Demiurgo. Alcuni tendono a svalutarne l'importanza teoretica. Qual è a Suo avviso il significato di questa dottrina, e quale ruolo riveste la figura del Demiurgo nell'ambito della ontologia platonica?

RISPOSTA: Il Demiurgo viene introdotto da Platone nel Timeo per spiegare l'origine del mondo fisico, del cosmo sensibile. Essendo infatti quest'ultimo caratterizzato dal divenire, secondo Platone esige una causa; egli formula nel Timeo questa specie di principio per cui tutto ciò che nasce deve avere una causa, deve essere stato fatto da qualcuno. Ecco che allora ricorre, servendosi chiaramente di un modello antropomorfico, a questa figura chiamata Demiurgo, cioè "artefice", artigiano per spiegare come abbia avuto origine il mondo sensibile e dice appunto che il Demiurgo è come un artigiano il quale plasma una materia già data, e cioè l'insieme dei quattro elementi che si muovono disordinatamente all'interno di un ricettacolo che è la chora, lo spazio. Il Demiurgo plasma questa materia guardando come modello alle idee e costruisce le singole realtà sensibili come altrettante copie, altrettante immagini di questi modelli costituiti dalle idee. Io credo che questo discorso non debba essere né sopravvalutato né sottovalutato. Non dev'essere sopravvalutato nel senso che il demiurgo non è il principio supremo della realtà ma è soltanto il principio del mondo sensibile. Il Demiurgo è stato introdotto solo per spiegare la realtà sensibile, mentre il principio supremo dell'intera realtà rimane l'Uno, il Bene. Tuttavia questo discorso non deve essere nemmeno sottovalutato perché è vero che Platone nel Timeo afferma che la descrizione del mondo sensibile non è scienza ma è soltanto un discorso verosimile, un eikos mythos, ma l'introduzione del Demiurgo non fa parte ancora del discorso verosimile bensì ne costituisce la condizione. Ciò che è soltanto verosimile è la descrizione del modo in cui il Demiurgo avrebbe operato per costruire il mondo sensibile. L'esistenza di un Demiurgo secondo Platone non è soltanto verosimile bensì un principio necessario proprio per rendere ragione del mondo sensibile. Del resto ci sono, anche in altri Dialoghi di Platone, degli accenni ad una realtà assimilabile al Demiurgo. Per esempio nel Filebo, dove si parla della causa della mescolanza che costituisce le varie realtà, si dice che essa è una mente, e più precisamente una mente divina. Io credo che si possa senz'altro assimilare questa al Demiurgo, senza tuttavia dimenticare che questo principio non è mai per Platone il principio supremo che rimane invece l'Uno, ovvero il Bene.

 

PLATONE, La Repubblica, 509
"SOCRATE: Dirai, credo, che agli oggetti visibili il Sole conferisce non solo la facoltà di essere visti, ma anche la generazione, la crescita e il nutrimento, pur non essendo esso stesso generazione.
GLAUCONE: E come potrebbe esserlo?
SOCRATE: Puoi dire dunque che anche gli oggetti conoscibili non solo ricevono dal Bene la proprietà di essere conosciuti, ma ne ottengono ancora l'Esistenza e l'Essenza, anche se il Bene non è essenza, ma qualcosa che per dignità e potenza trascende l'essenza.
GLAUCONE: Apollo, dio del sole, che sovrumana eccellenza!"

tratto e rielaborato graficamente da EMSF