Vegetarianesimo: siamo uomini o capre?
Ha fatto scalpore, qualche tempo fa, il caso della bambina sottratta dalla magistratura ai genitori, perché questi la volevano alimentare solo con cibi vegetali. Il vegetarianismo è una moda che si è diffusa con una certa capillarità nelle società occidentali in questi ultimi decenni. Tale fenomeno si colloca dentro quel più ampio movimento di “ritorno alla natura”, sul quale pertanto conviene anzitutto soffermarci sia pur sommariamente.
“Ritornare alla natura”
Erboristerie, ristoranti ispirati alla “alimentazione naturale”, prodotti alimentari “naturali” non sono più, da tempo, delle rarità. Il bisogno di un “ritorno alla natura” si esprime del resto in una variegata galassia di atteggiamenti, istanze e prassi che vanno appunto dalla alimentazione alla medicina, dalla modalità di concepire l'abitazione (la “architettura ecologica”) ai progetti politici. Di galassia è giusto parlare perché le motivazioni di chi in qualche modo vi entra in contatto sono quanto mai varie, come vedremo meglio. Tuttavia è possibile individuare alcune comuni matrici culturali di tale fenomeno. Partiamo da un gruppo di motivi universalmente condivisibili, per passare ad un altro, che non lo è affatto.
motivi condivisibili
1. Vi sono innanzitutto i motivi riconducibili a una reazione a un tipo di vita e di società eccessivamente artificioso. In altri termini l'uomo, a partire dalla fine del medioevo e in concomitanza con la rivoluzione scientifica, applicata poi al dominio tecnico-industriale del mondo, ha esercitato il suo potere sulla natura (che di per sé egli detiene giustamente, essendo alla natura superiore) in una modalità dispotica, irrispettosa e non di rado sovvertitrice. Non è retorico ad esempio dire che nelle grandi città contemporanee, frutto dell'industrializzazione, l'uomo ha perso il contatto con la natura: a partire dal paesaggio che egli si trova davanti ogni giorno, che è pressoché interamente costruito dal suo progetto (=non è naturale); non è perdita da poco non poter più contemplare il cielo stellato, o gli scenari che la natura porgerebbe generosamente allo sguardo umano cercatore della bellezza. Ma anche l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo, i cibi che mangiamo non hanno più quell'autenticità che avrebbe la natura, in quanto opera “molto buona” (Gn, 1) uscita dalle mani del Creatore. L'uomo li ha alterati, facendo un danno a sé stesso. E creando così, per molte malattie e indigenze che la scienza e la tecnica gli hanno consentito di sconfiggere, nuove malattie e nuovi disagi.
In questo senso il “ritorno alla natura” può esprimere un bisogno autentico. Ne va infatti non solo della salute dell'uomo, che è comunque un bene prezioso, ma anche della possibilità che egli trovi, nella natura, un segno della Bellezza e della Bontà del suo Creatore, a conferma della sensatezza della sua vita, orientata a un Destino buono. In quest'ottica anche il Pontefice tocca talvolta il tema della responsabilità umana verso la natura, e il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica recepisce tale idea mettendo in guardia contro i peccati di danneggiamento all'ambiente.
motivi inaccettabili
2. Ma vi è anche un insieme di motivazioni riassumibili nella perdita del senso della dignità unica che ha l'uomo nei confronti della natura. Vi può essere insomma la motivazione di un naturalismo antiumanistico. Il “ritorno alla natura” viene allora a significare il rifiuto non solo della civiltà e del progresso, che pur con i limiti innegabili contengono dei valori o almeno delle potenzialità positivi, ma una grave sottostima dell'uomo. In altri termini si ha non solo una condanna del modo con cui l'uomo si è comportato nei riguardi della natura (condanna che abbiamo già visto per molti aspetti condivisibile), ma una condanna dell'uomo tout court. Si processa in tal modo non l'agire (storico) dell'uomo, ma la stessa natura dell'uomo, abbassandola al livello qualitativo di quella degli animali e delle piante. E così si misconosce il carattere centrale e unico dell'uomo, la sua infinita dignità, che gli viene, secondo la fede, ma anche secondo una retta ragione, dall'essere amato infinitamente dal Mistero. Così non si capisce più che la vita umana ha infinitamente più importanza di quella animale (la formula che potrebbe esprimere questa idea è che vale di più la vita di un solo uomo, che la vita di tutti gli animali messi insieme). Così capita di veder attribuire un peso emotivamente maggiore alla sorte di una balena, incagliatasi nella sabbia, che non a quella dei bambini che muoiono di fame nel Terzo Mondo, o che vengono ammazzati nel grembo materno.
Matrici del vegetarianesimo
A quale di queste due matrici si ricollega il vegetarianismo? Anche qui bisogna in realtà distinguere. Si può essere vegetariani per diversi motivi, alcuni riconducibili al primo filone sopra visto, altri al secondo.
ricerca della salute
1. Si può essere vegetariani per motivi igienici, perché si pensa che mangiare carne nuoccia alla salute. Ora, è vero che nelle società opulente dell'Occidente vi è, dentro il generale atteggiamento di disprezzo verso le esigenze della natura, una smodatezza e un disordine alimentare, la cui matrice deve essere giustamente oggetto di contestazione. Ed è vero che uno degli aspetti di questo disordine è l'eccesso di carne (in particolare di carne bovina). Ma questo dovrebbe portare ad un riequilibrio della dieta, che ridia il giusto peso alla componente vegetale. Il vegetarianismo è invece propugnatore di un totale rifiuto di qualsiasi cibo animale. Ci sarebbe tra l'altro da discutere se questa impostazione si riveli ad un serio esame scientifico sana e salutare. Probabilmente sarebbe più vero dire appunto che nuoce il mangiare troppa carne, ma non sarebbe meno vero che il non mangiarne affatto costituisce un rischio simmetrico. Comunque un vegetarianismo che avesse una esclusiva motivazione igienica non riguarderebbe una analisi storico-culturale, ma sarebbe di diretta pertinenza medico-scientifica.
non-violenza
2. Vi è poi un ambito motivazionale che appare legato un po' a entrambi i filoni menzionati, quello che si richiama a una sensibilità di non-violenza. Si dice di non volere mangiare carne, perché non si vuole essere “complici” della sofferenza degli animali. L'ideale della non-violenza è certo un ideale nobile e rispettabile. Non di rado capita che chi compie una scelta di questo genere abbia, nella propria storia, qualche episodio (in qualche modo violento) che lo ha segnato, acutizzandone la sensibilità in un modo che appare eccentrico alla mentalità comune. Tuttavia, esaminata con implacabile rigore logico, questa stessa scelta appare da un lato impraticabile e dall'altro risulta in ultima analisi priva di ragioni adeguate, se non appoggiandosi alla matrice antiumanistica di cui sopra. La sua impraticabilità emerge se si considera che, se è giusto, da una parte, evitare agli animali sofferenze inutili, non si può dimenticare che per una coerenza totale bisognerebbe evitare qualsiasi scelta provochi la morte o la sofferenza degli animali. Ma questo è praticamente quasi impossibile: bisognerebbe abolire ad esempio l'uso del cuoio, della lana, della seta, e forse anche il consumo delle uova, del latte e dei latticini. Inoltre bisognerebbe non dare più da mangiare ai cani e ai gatti (che pure si nutrono di carne). Forse, per coerenza estrema, bisognerebbe (ingerenza umanitaria, anzi animalista!) impedire a tutti gli animali carnivori di uccidere le loro prede. Senza contare che la proibizione di uccidere gli animali dovrebbe estendersi anche agli animali inferiori: zanzare, mosche, scarafaggi, ragni, formiche, cimici e quant'altro. Andando più oltre su questa strada di una sensibilità “non-violenta” ci si potrebbe chiedere perché non mettere anche le piante nell'ambito delle realtà da proteggere. Una non-violenza totalmente coerente richiederebbe forse di estendersi addirittura allo stesso ambito minerale: si comincia a far vacillare la differenza qualitativa uomo/animali salta qualsiasi differenza qualitativa, e allora chi ci garantisce che le stesse pietre non soffrano e che abbiano dei diritti inviolabili. Inoltre, se non-violenza è rispetto della natura, appare davvero singolare che in nome della natura si pratichi una scelta che è innaturale e contro natura. L'uomo è infatti naturalmente onnivoro, il suo organismo è predisposto dalla natura a mangiare tanto vegetali quanto animali.
anti-umanismo
3. Ma c'è l'ambito di motivazioni che deriva direttamente dalla negazione esplicita di una differenza qualitativa tra gli animali e l'uomo: per cui il vegetarianismo assume il significato di non volere la sofferenza e la morte degli animali perché li vede qualitativamente posti sullo stesso piano valoriale dell'uomo. Non dovrebbe essere il caso di insistere su quanto sia insidioso e rovinoso un simile modo di impostare le cose. La conseguenza è infatti, in termini sintetici, la possibilità di disprezzare l'uomo, riducendolo ad animale. Chi parte da posizioni animaliste non ha valide ragioni per condannare Auschwitz. Se l'uomo non è più immagine e somiglianza di Dio tutto può essere perpetrato senza alcuna condanna fondata.
Perché allora si accede a questa ideologia antiumanista, che si sbarazza di venti secoli di civiltà occidentale? Vi possono essere varie componenti. Una è certamente il bisogno di avere una ideologia totalizzante, “qualcosa, purchessia, in cui credere”. Dopo il tramonto delle ideologie classiche, in particolare del marxismo, resta comunque la ricerca di un quadro di riferimento che plachi l'anelito all'assoluto, meglio se fornendo una risposta al bisogno di purificazione da ogni senso di colpa. Filosofie di importazione orientale (col loro tipico fondere l'umano dentro il naturale, misconoscendone la centralità e l'unicità) si prestano benissimo in tal senso. Un'altra fonte è invece il materialismo, quadro teorico per palati meno raffinati, ma pur sempre valido a legittimare un comportamento istintivo e privo di problemi. Infatti se l'uomo è solo un animale, perché farsi degli scrupoli (nei confronti dei propri simili umani, beninteso)? Visto che degli scrupoli siamo comunque costretti a farceli, li riserveremo per quegli animali, che sono ormai sul nostro stesso livello. Anzi sono meglio, perché almeno loro non mentono e non commettono disonestà e crudeltà!
Per un giudizio
1. Ci sembra evidente che contro la terza componente il giudizio debba essere netto e tagliente: l'uomo non è un animale. La sua dignità, il suo valore sono incommensurabilmente maggiori di quello di tutti gli animali messi insieme. Su questo tema consigliamo le efficaci riflessioni che Eugenio Corti fa nel suo capolavoro, Il cavallo rosso (in seguito all'episodio dei ragazzini che tormentano un povero cane, pp. 94/95): egli nota che una volta (anni '40) c'era meno sensibilità per gli animali, ma in compenso c'era una attenzione ai valori umani, che i tempi successivi laico-animalisti, hanno ampiamente perso. Oppure rimandiamo alla brillante ironia di Chesterton, che ad esempio ne L'osteria volante mette alla berlina le mode orientaleggenti e il vegetarinesimo, come forma di astrattezza ideologica che conduce l'uomo a rifiutare la realtà per inseguire dei sogni impossibili.
2. Può invece essere utile riflettere sul tema della sensibilità alla “sofferenza” della natura. Usiamo le virgolette perché il termine sofferenza si può impiegare nel suo vero senso solo nel caso dell'uomo e di esseri comunque consapevoli. Per gli animali occorre parlare propriamente di dolore, e anche qui tenendo presente che noi non possiamo immaginare che cosa sia il dolore in un essere privo di coscienza razionale.
In effetti il vegetarianismo pone un problema che, pur essendo inusuale alla tradizione cristiana, può meritare qualche attenzione, quello del dolore degli animali. È un problema che pone ad esempio Leon Bloy, uno dei più grandi letterati cattolici francesi del Novecento, nel suo capolavoro La donna povera. E non a caso in tale opera (cap. XII) egli si chiede il senso della sofferenza animale: in effetti l'uomo soffre per il suo peccato (per il peccato originale), ma gli animali non hanno commesso peccato (non avendone del resto la possibilità, privi come sono di libero arbitrio). Fa problema quindi tale non giustificata sofferenza. La questione posta da Bloy è indice di una sensibilità talmente acuta da sfiorare l'esasperazione 1. Notiamo di sfuggita che questa sensibilità si associa a una impetuosità di percezioni e di giudizi, che lasciano spesso sconcertati: potrebbe non essere casuale il fatto che la rivalutazione della dignità degli animali faccia il paio, in Bloy, con una estrema severità di giudizio verso gli uomini. Forse la sua impaziente irruenza nel giudicare l'animo dei suoi simili, irruenza dovuta d'altronde più che altro2 a schiettezza e passionalità temperamentali, cospira a fargli riscoprire, negli animali, una innocente spontaneità originaria, che troppo spesso i figli di Adamo hanno sommerso sotto un mare di ipocrisia e di artificiosità. La soluzione che egli propone mette in legame di relazione simbolica la sofferenza degli animali alla Redenzione: “Com'è possibile uccidere un agnello o un bue, ad esempio, senza ricordarsi che questi poveri esseri hanno avuto il privilegio di profetizzare, nella loro natura, il sacrificio universale di nostro Signore Gesù Cristo?” In altre parole per Bloy, sembra di capire, ci si può nutrire degli animali, ma la sensibilità che farebbe esitare su tale gesto non va demonizzata come necessariamente perversa, potendo essere uno stimolo alla memoria del Sacrificio di Cristo, Agnello innocente. Per capire il senso esatto, e non blasfemo, di questo discorso sarebbe certo necessario riattingere alla mentalità simbolica tanto cara al Medioevo, e allora vedremmo che il sacrificio di sé come ideale supremo è simbolizzato non solo dalla morte degli animali per far vivere l'uomo, ma anche da altri fenomeni naturali, come ad esempio il fenomeno del Sole, che irraggia luce e calore grazie a un immenso “sacrificio di sé”, interamente “consumandosi-per”.
Per un giudizio sintetico a partire dalla fede si veda questa ulteriore, breve, scheda
1 Chiunque abbia un minimo di familiarità con Bloy troverà giustificate queste affermazioni. Per convincersene comunque basterebbe considerare le tinte molto forti con cui il romanziere dipinge i “cattivi” (ad esempio i coniugi Poulot”) o la passione con cui tratta la moglie.
2 Si potrebbe in effetti pensare anche a una possibile contaminazione protestante, o quanto meno giansenistica, in questo suo modo “estremistico” di rappresentare buoni e cattivi (sui quali davvero sembra non scendere “nemmeno una goccia di grazia”).
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