Uno scherzo pericoloso
Quella sera Nikolaj Terent’evič non fu l’unico a passare un brutto quarto d’ora. A un certo punto, mentre sfogliava un grosso album di fotografie con la carta spessa e la copertina in pelle, Maščuk aggrottò le sopracciglia in modo tale che tutti si sporsero per vedere. Era una foto di Getmanov nel suo ufficio alla regione, prima della guerra: era seduto a una scrivania sterminata, con indosso una camicia che sembrava militare e alle spalle un immenso ritratto di Stalin, come ce ne sono solo negli uffici regionali. Il viso, però, era stato scarabocchiato con le matite colorate: gli avevano aggiunto un pizzetto azzurro e degli orecchini blu.
«Se lo prendo, quel monello!» esclamò Getmanov alzando le braccia al cielo come una donnetta isterica.
Nervosa, Galina Terent’eva fissava i suoi ospiti e ripeteva:
«E pensare che anche ieri sera, prima di addormentarsi, mi ha detto di voler bene allo zio Stalin come al suo papà...».
«Ma su, sono birichinate...» disse Sagajdak.
«Non è una birichinata, no, ma un deliberato atto teppistico» sospirò Getmanov.
E fissò Maščuk, attendendo la sua reazione. In quegli attimi ripensarono entrambi a un episodio accaduto prima della guerra: il nipote di un loro compaesano, studente al politecnico, aveva sparato con un fucile ad aria compressa a un ritratto di Stalin appeso al pensionato studentesco.
Entrambi sapevano che era stata una ragazzata, che quel gesto non aveva scopi politici o terroristici. Il compaesano, ottima persona e capo di un ufficio telefonico, aveva chiesto a Getmanov di aiutare il nipote.
E dopo una riunione del comitato regionale Getmanov ne aveva parlato a Maščuk.
«Non prendiamoci in giro, Dementij Trifonovič» gli aveva detto questi. «Colpevole o no, poco importa... Se insabbiassi la pratica, un domani a Mosca potrebbero dire a Berija che Maščuk prende con eccessiva leggerezza il fatto che si spari al ritratto del grande Stalin. Oggi sono in questo ufficio e domani nella polvere di un lager. Se la assume, la responsabilità? E guardi che anche di lei potranno dire: “Oggi sparano al ritratto e domani gli sparano addosso, a Stalin, e Getmanov lo trova persino simpatico, quel ragazzo... Non sarà che approva il suo gesto?”. Se la assume, la responsabilità? Eh?».
Un mese dopo, o forse erano stati due, Getmanov aveva chiesto a Maščuk se aveva notizie del pistolero.
«Lasciamo perdere» aveva risposto l’altro, tranquillo. «S’è scoperto che era una carogna, un figlio di kulak. Ha confessato...».
Dunque Getmanov guardava Maščuk con occhio indagatore e continuava a ripetere:
«Non è una birichinata, no».
«Suvvia,» disse Maščuk «ha quattro anni! Bisognerà pur tenerne conto...».
E con un calore, un affetto che tutti colsero, Sagajdak aggiunse:
«Ebbene sì, lo confesso: io non riesco a mostrarmi inflessibile con i bambini... Dovrei, ma mi manca l’anima. Penso solo a che stiano bene...».
Lo guardarono tutti, compatendolo. Sagajdak era stato sfortunato, con i figli. Il maggiore, Vitalij, aveva preso una brutta strada a nemmeno quindici anni; la polizia l’aveva fermato per una rissa in un ristorante e il padre aveva dovuto telefonare al vicecommissario degli Interni per mettere a tacere uno scandalo che avrebbe coinvolto i figli di persone in vista – generali e accademici –, e le figlie di un noto scrittore e del commissario all’Agricoltura... Durante la guerra il giovane Sagajdak avrebbe voluto arruolarsi, e allora il padre l’aveva chiuso per due anni in una scuola per artiglieri. Ne era stato espulso per scarsa disciplina e non senza la minaccia di essere mandato al fronte con una compagnia di rinforzo.
Era quasi un mese, ormai, che Sagajdak figlio frequentava tranquillamente una scuola per mortaisti; i genitori erano felici e speranzosi, ma la preoccupazione restava.
L’altro figlio di Sagajdak, Igor’, aveva preso la poliomielite a due anni, e i postumi della malattia lo avevano reso infermo: le sue gambette secche non lo reggevano e riusciva a muoversi solo con le stampelle. Il piccolo Igor’ non poteva frequentare la scuola, erano i maestri ad andare a casa sua, ma studiava volentieri e con grande zelo.
Non c’era luminare della neuropatologia che i Sagajdak non avessero interpellato, non solo in Ucraina, ma anche a Mosca, Leningrado e Tomsk. Non c’era medicinale straniero che Sagajdak non fosse riuscito a procurarsi tramite le rappresentanze commerciali sovietiche o le ambasciate. Potevano, e dovevano, biasimarlo per quell’eccesso di amore paterno, lo sapeva. Ma sapeva anche di non aver commesso un peccato mortale. Perché lui stesso era incline a ritenere una prerogativa degli uomini nuovi l’affetto che anche alcuni suoi collaboratori mostravano per i figli. Lo sapeva, e sapeva che gli avrebbero perdonato la guaritrice fatta venire con un aereo da Odessa, o l’erba miracolosa di un qualche santone dell’Estremo Oriente arrivata a Kiev con una staffetta militare.
«I nostri capi sono persone eccezionali,» disse Sagajdak «e non parlo del compagno Stalin, il quale non ha bisogno che glielo si dica, ma dei suoi collaboratori più stretti... Anche in tempo di guerra mettono sempre il partito prima dei sentimenti paterni».
«Già, non sono cose che si pretendono da chiunque, e loro lo sanno» disse Getmanov alludendo al rigore mostrato dal segretario del Comitato centrale nei riguardi del figlio peccatore.
Il discorso sui figli prese una nuova piega, si fece più semplice e sentito.
La forza d’animo di quelle persone, la loro capacità di provare gioia, parevano legate al fatto che le loro Tanje e i loro Vitalij sprizzassero salute, o che da scuola Ljudmile e Vladimiri riportassero solo bei voti.
Galina Terent’eva attaccò a parlare delle sue figlie:
«Fino ai quattro anni compiuti Svetlana stava sempre male: era tormentata dalle coliti, povera figlia. Sapete come me l’hanno guarita? A furia di mele grattugiate...».
«Oggi, prima di entrare a scuola,» aggiunse Getmanov «mi ha detto: “In classe ci chiamano ‘le figlie del generale’”. E la sorella, Zoja, che è una faccia di bronzo, s’è messa a ridere: “E capirai! Da noi c’è la figlia di un maresciallo, lei sì che conta qualcosa...”».
«Visto?» disse allegro Sagajdak «non sono mai contenti. “Un terzo segretario sarebbe un pezzo grosso?” ha chiesto il mio Igor’ qualche giorno fa».
Anche Nikolaj Terent’evič avrebbe potuto raccontare qualche aneddoto divertente sui suoi figli, ma sapeva che era meglio non aprir bocca se l’argomento era l’acume di Igor’ Sagajdak e delle ragazze Getmanov.
«I nostri padri, in campagna, non avevano tante fisime con noi figli» disse pensoso Maščuk.
«Ma ci amavano comunque» disse il fratello della padrona di casa.
«Ci amavano, certo, ma ci picchiavano anche. Io, per lo meno, le ho prese».
«Mi ricordo di quando mio padre partì per la guerra nel 1915» disse Getmanov. «Ridendo e scherzando s’è congedato sottufficiale, con due Stelle di San Giorgio. Mia madre gliel’aveva preparata lei, la sacca, con le fasce per i piedi, una maglietta, qualche uovo sodo, del pane. Ancora sotto le coperte, io e mia sorella lo guardammo sedersi a tavola per l’ultima volta, all’alba. Prima di andarsene riempì d’acqua la botte accanto alla porta e spaccò un bel po’ di legna. Mia madre ce lo raccontava sempre».
Guardò l’orologio e disse:
«Accidenti!».
«Domani si parte, dunque» disse Sagajdak alzandosi.
«L’aereo è alle sette».
«Dall’aeroporto civile?» chiese Maščuk.
Getmanov annuì.
«Meglio» disse Nikolaj Terent’evič, e si alzò anche lui. «Quello militare è a quindici chilometri».
«Cosa vuole che sia, per un soldato!» commentò Getmanov.
Si salutarono tra risate chiassose e abbracci; una volta in corridoio, con gli ospiti già in cappotto e cappello, Getmanov disse:
«Un soldato si abitua a tutto, a scaldarsi con niente e a mangiare un pugno di mosche. Ma a vivere lontano dai figli non ci si abitua mai».
E dalla voce, dall’espressione sul suo viso, dagli sguardi di chi stava uscendo, era evidente che non lo diceva tanto per dire.
da Vita e destino, p.I, 21
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