Aristotele

la (incompleta) razionalità della realtà

🪪 Cenni sulla vita

Aristotele nacque verso il 384 a.C., a Stagira, città della penisola calcidica, nella Grecia settentrionale (vicina alla Macedonia), figlio di Nicomaco, medico e amico personale del Re di Macedonia, e di Festide, proveniente dall'isola di Eubea.

Fu discepolo e collaboratore di Platone alla Accademia, dove rimase per circa vent'anni; vi insegnò tra l'altro retorica (in polemica con Isocrate) e dialettica; in tale periodo scrisse anche dei dialoghi, di cui ci restano solo pochi frammenti. Pur assimilando molte idee del maestro Platone (come quella della immortalità dell'anima e della assolutezza della verità) andò sviluppando un proprio pensiero originale e quando morì Platone abbandonò l'Accademia, dove era stato eletto scolarca Speusippo, le cui idee non collimavano con le sue.

Si dedicò dapprima a ricerche di biologia, componendo una monumentale Storia degli animali, in collaborazione con Teofrasto, nella cui città, Mitilene, soggiornò.

Fu poi chiamato ad essere Si può vedere questo spezzone dal film Alexander del figlio del Re di Macedonia, Filippo, il futuro Alessandro Magno. Durante il periodo di massimo splendore del suo ex-discepolo Aristotele fu ad Atene, dove fondò una fiorente scuola, il Liceo.

Alla morte di Alessandro Magno, nel 323 a.C., in Atene si ebbero moti anti-macedoni che minacciarono la incolumità personale di Aristotele. Egli preferì allora lasciare la città per Eubea, presso la casa materna. Lì morì l'anno seguente.

impostazione di fondo

Per Aristotele esiste sì, come per il suo maestro Platone, un mondo intelligibile, spirituale e invisibile (i Motori immobili), ma è pienamente reale anche il mondo sensibile, questo mondo, che è fatto di sostanze materiali. Anzi in qualche modo è questo mondo sensibile ad essere principalmente oggetto di attenzione.

Se infatti per Platone centrale è l'idea, realtà perfetta e immutabile, per Aristotele centrale è la sostanza, che è anzitutto sostanza materiale, corporea.

Mentre Platone era quindi tutto proteso verso il mondo delle idee, che abbiamo già visto prima e vedremo dopo dell'unione al corpo della nostra anima, per Aristotele questa, presente, è la vera vita. Prova ne sia il fatto che niente egli ci dice di una vita ultraterrena (che però nemmeno esclude).

la scuola di Atene
Raffaello ha plasticamente raffigurato questa differenza nel suo celebre dipinto, la Scuola di Atene: Platone indica il cielo, Aristotele la terra.

suddivisione del sapere

Tutto il sapere si suddivide ordinatamente, come evidenziamo nel seguente schema, in scienze teoretiche, pratiche e poietiche. Le prime sono volte al "sapere per il sapere" (theorein, vedere, contemplare), le seconde all'agire (prassein), le terze al "fare" (poiein).

L'ambito più importante del sapere sono le scienze teoretiche: sono loro che hanno il compito di dirci che cosa esiste.

Poi vengono le scienze pratiche (etica, per l'agire del singolo, e politica, per l'agire della collettività), che hanno il compito di delineare il retto comportamento dell'uomo.

Ma l'uomo non ha solo la possibilità di agire, può anche fare, cioè modificare il mondo materiale in cui si trova immerso: è il campo dell'arte (techne), in senso lato. I filosofi scolastici, nel Medioevo, sistematizzeranno la ulteriore distinzione tra arti belle e arti utili.

metafisica

lo sguardo più sintetico sulla realtà

C'è una scienza che studia l'essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto taleἜστιν ἐπιστήμη τις ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν
καὶ τὰ τούτῳ ὑπάρχοντα καθ' αὑτό.

Il suo fine è la contemplazione, cioè la conoscenza (disinteressata) della verità. Infatti, secondo Aristotele «tutti egli uomini, per natura, tendono al conoscere» (Πάντες ἄνθροποι τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται φύσει).

Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia (...). Ora chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere (...). Cosicché se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica.» (Met, A, 2, 982b)
«Il fine della scienza teoretica è la verità (Met, A elatton, 1, 993b).

Il che significa che c'è nell'uomo il desiderio di conoscere la verità, e questo desiderio è più forte di qualsiasi interesse pratico. L'uomo desidera sapere il senso della sua esistenza, come è davvero, non piegandone la ricerca a un progetto predeterminato.

Tuttavia è negativo che Aristotele pensi che la meraviglia (il «thaumàzein») sia superabile, quasi l'uomo potesse capire tutto. La verità è che siamo sempre davanti a una misura più grande della nostra: non ci siamo fatti noi, e non abbiamo fatto noi il mondo.

Per questo, come diceva S.Gregorio Nazianzeno, solo lo stupore fa conoscere. Riecheggiando del resto l'ammonimento di Cristo a ritornare «come bambini». Ossia, come avrebbe fatto dire Péguy a Dio, ne Il mistero dei santi innocenti, «l'uomo forte non è il mio forte».


La metafisica ha quattro significati fondamentali

aitiologia

la metafisica come scienza delle cause prime

In quanto tale la metafisica è scienza delle cause prime, ossia dei supremi perché. Si possono in effetti conoscere dei perché prossimi, che si costituiscono in realtà come dei "come" in rapporto ai perché supremi, alle cause prime, che la metafisica considera.
Tali cause prime sono quattro: materiale, formale, efficiente (o agente) e finale.

1.La causa materiale o materia è il sostrato indeterminato, privo quindi di caratteri specifici. Di questa causa si sono occupati essenzialmente i primi filosofi (dalla scuola ionica a Eraclito).

2.La causa formale o forma è il fattore determinante, ciò che fa sì che la materia indeterminata assuma certi caratteri distintivi. Di questa causa si è occupato in particolare Platone, con la sua teoria delle idee.

3.La causa efficiente (o efficace, o agente) è ciò da cui è prodotto l'effetto: è la causa nel senso corrente del termine. è Empedocle ad aver per primo individuato questa causa, da lui collocata nelle forze di Amore e Odio.

4.La causa finale o fine è ciò verso cui tende la cosa causata. Di questa causa ha parlato soprattutto Anassagora, con la sua teoria del Nous, che organizza tutta la realtà dei semi in modo ordinato e finalizzato.

Materia e forma sono principi intrinseci alla cosa, al punto che non si possono scindere. Causa efficiente e finale sono invece estrinseci alla cosa causata, la prima precedendola, la seconda seguendola.

ontologia

la metafisica come scienza dell'essere in quanto essere

All'inizio del libro Gamma Aristotele afferma che vi è una scienza che studia l'essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale (Ἔστιν ἐπιστήμη τις ἣ θεωρεῖ τò ὄν ᾗ ὄν καì τὰ τούτῳ ὑπάρχοντα καθ'αὑτό). La metafisica è infatti, nel suo secondo senso, scienza dell'essere in quanto essere.

analogia=uni-molteplicità dell'essere

L'essere, ciò che è in ogni cosa, è al contempo uno (identico nelle diverse cose) e molteplice (poiché le cose sono comunque molte), ossia è analogo. Aristotele afferma quindi la analogia dell'essere.

Atena pensosa
La filosofia, per A., inizia con lo stupore ma rifluisce poi nella pretesa di aver capito. L'esito esistenziale è un'ultima tristezza.

In altre parole l'essere non è né univoco, né equivoco: univoco è un termine detto nello stesso identico senso di due cose diverse (ad esempio “cavallo” detto di due cavalli), equivoco è un termine detto di due cose diverse con senso (totalmente) diverso, come “polo” detto di una maglia, detto di un polo terrestre e del gioco del polo; un termine è invece predicato analogicamente quando viene detto di cose diverse con un senso parzialmente identico e parzialmente diverso, come “viola” detto del colore viola e detto della viola piantina, o “rosa” detto del colore o detto della pianta, o, per fare l'esempio di Aristotele, “sano” detto di una persona, o del suo colorito, o del cibo (o del clima) più adatto a garantire la salute.

Tra i vari enti esiste, in questo senso, una analogia: si dice analogicamente, cioè né equivocamente né univocamente, che “è” una cosa e, ad esempio, un suo colore, un suo effetto operativo, un ricordo di essa, un sentimento da lei suscitato.

Così Aristotele supera definitivamente Parmenide, che concepiva l'essere come univoco, completando Platone, che aveva cercato di staccarsi dall'Eleate, soprattutto nel Parmenide e del Sofista, ma, secondo lo Stagirita, senza riuscirvi pienamente. In effetti Platone, secondo Aristotele, concepiva ancora l'essere come un genere, sia pure un genere trascendente, ossia come un universale sostanziale.

unità dell'essere

In quanto uno, l'essere ha delle leggi, dei principi a cui obbedisce: il principio di identità, di non-contraddizione e del "terzo escluso", per cui è impossibile che la stessa cosa sia e non sia (τò γàρ αὐτὸ ἅμα ὑπάρχειν τε καì μὴ ὑπάρχειν ὰδύνατον τῷ αυτῷ καì κατà τò αυτό [Γ, 3, 1005b 19/20]).

Come si dimostrano tali principi supremi? Non possono essere dimostrati positivamente. è da pazzi dice infatti Aristotele, chiedere la dimostrazione di tutto: alcune cose sono autodimostrantesi: sono evidenti. Se si pretendesse di dimostrare tutto si cadrebbe in un circolo vizioso: si dimostrerebbe A con B, B con C e così via, fino a Z, che sarebbe dimostrata con A. Il che sospenderebbe il tutto a una ultima non dimostrazione. Da un lato quindi i principi supremi sono immediatamente evidenti.
Tuttavia una qualche forma di dimostrazione esiste: per assurdo. Mostrando che chi volesse negarli non potrebbe essere coerente.

Chi volesse negare i principi supremi dovrebbe essere come un tronco (ὃμοιος φυτῷ): infatti qualsiasi parola o discorso uno pronunzi intende dare con ciò stesso un senso preciso al suo discorso o alla sua parola. Nessuno parla per dire una cosa e il suo contrario e infinite altre cose. Ma così dovrebbe essere se il principio di non contraddizione non fosse vero. Il che dimostra che è impossibile, di fatto, negarlo (Γ, cap. 4/6).

molteplicità dell'essere

Si danno quattro significati fondamentali dell'essere: secondo il vero e il falso, accidentale, secondo potenza e atto, secondo le categorie


specificazioni

1. Essere secondo il vero e il falso (to on os alethès): è l'essere in quanto pensato: solo questo essere può essere falso; infatti la falsità è solo nel giudizio del soggetto che non si "adegua" all'oggettività del reale. Non esistono "cose false", ma pensieri falsi. Il che significa che l'essere in senso vero e proprio coincide col vero. Il che è molto prossimo al dire che la realtà non inganna, ma è il soggetto umano a porre diaframmi alla verità, a cercare di alterare ciò che di per sè sarebbe retto e limpido.

Kore
L'essere accidentale, cioè il concreto non ha senso: i volti che amiamo si disferanno per sempre nel nulla

2. Essere accidentale: è l'essere che di fatto si trova ad accadere, ma potrebbe anche non accadere; è senza essere radicato nelle profondità necessarie delle strutture intelligibili che costituiscono l'intelaiatura del reale. Di fatto è accidentale ogni realtà particolare e ogni evento concreto. Necessarie sono solo le struttura intelligibili, le nature specifiche e le leggi universali. Questo significa che per Aristotele io che scrivo e tu che leggi esistiamo per un caso, e per caso ci è accaduto nella vita quello che ci è accaduto: il particolare in quanto tale non ha senso, è assurdo. Sensato è unicamente l'universale. Ma in questo modo, per Aristotele, la vita concreta non è salvata.

3. Essere secondo potenza e atto. Con questi concetti Aristotele imposta la sua soluzione al problema della contraddittorietà del divenire, quale la aveva prospettata Parmenide. Per il quale il divenire è l'essere del non essere e il non essere dell'essere. Invece il passaggio è non dal non-essere (assoluto) ma da quel non-essere relativo che è l'essere potenziale all'essere attuale. Il che non implica contraddizione. Essere potenziale è ad esempio il seme rispetto alla pianta che se ne svilupperà: il seme è in atto seme, e in potenza pianta.

L'essere attuale è determinato, è sempre qualcosa di preciso, mentre l'essere potenziale, la potenza, è a) indeterminato, non però b) totalmente indeterminato: un seme a) può diventare una pianta più alta o più bassa, con tanti rami o con pochi rami, b) ma non può un seme di pesco svilupparsi in una pianta di ulivo, ad esempio. Il che, in altri termini, significa che l'essere potenziale non è il nulla, ma è qualcosa, seppure qualcosa di (relativamente) indeterminato.

In quanto indeterminato l'essere potenziale è più imperfetto di quello attuale, è imperfetto. E infatti si passa dalla potenza all'atto solo grazie all'essere attuale: il legno è potenzialmente brace incandescente, ma lo può diventare in atto solo grazie a qualcosa che bruci già in atto. In altri termini, a differenza di quanto dirà nell'800 Hegel il divenire è subordinato all'essere, è reso possibile dall'essere, è più imperfetto dell'essere.

In qualche modo la potenza sta all'atto, nella sostanza corporea, come la materia sta alla forma: la materia è il fattore potenziale, la forma il fattore attualizzante e attuale.

4. Essere secondo le categorie. Ossia sostanza, qualità, quantità, luogo, tempo, relazione, agire, patire. Una distinzione essenziale va fatta tra la categoria di sostanza, che è la principale, e quelle degli "accidenti".

Solo la sostanza "sussiste", mentre gli accidenti "ineriscono" alla sostanza, come sue determinazioni. Non esiste il verde in sé, ma il verde di una data sostanza (ad esempio di una pianta), mentre la pianta esiste in sè stessa, non "appoggiandosi" ad altro, non inerendo.

Inoltre la sostanza resta (substat), anche se i suoi accidenti cambiano: una persona è la stessa sostanza quando è lattante, quando è adolescente e quando è adulto, anche se cambiano gli accidenti quantità (altezza, peso), qualità (acquisisce nuove conoscenze, cambia stati d'animo), relazione (diventa ad esempio marito, padre, e datore di lavoro, amico di Tizio e di Caio) e altri.

Da non confondere il concetto di accidente e quello di essere accidentale: è accidentale che una sostanza abbia questi accidenti, ma è necessario che abbia degli accidenti; viceversa le sostanze seconde, in pratica le specie, sono necessarie, ma le sostanze prime, individuali, sono accidentali, appartengono all'essere accidentale.

usiologia

la metafisica come scienza della sostanza

Nell'essere, tra i vari tipi di essere un posto centrale lo occupa la sostanza (pron.: usìaοὐσία). Sostanza è un essere che non inerisce ad altro (non è qualcosa di qualcos'altro: come il bianco che è sempre bianco di qualcosa, il bianco di una parete, o il bianco di un foglio), ma è sostrato di inerenza di altro (cioè degli accidenti): è altro che “inserisce” alla sostanza, che è caratteristica della sostanza. Per stare agli esempi fatti: la parete è la sostanza, il suo essere bianca è “accidente” (se fosse rossa invece che bianca sarebbe ancora una parete, anzi quella parete), il suo essere liscia è “accidente” (=se fosse ruvida invece che liscia sarebbe ancora quella parete).

Da notare che essere caratteristica accidentale, o accidente, non significa essere una “parte” di qualcosa, ma una “caratteristica” (nel senso di qualcosa che inerisce, appartiene in modo come dire intrinseco a ciò di cui è accidente) di qualcosa. Infatti la parete è in qualche modo di qualcosa, ad esempio è la parete di una casa, ma nel senso che è una delle parti della casa. Una parte è qualcosa di scomponibile, per così dire, qualcosa di esterno alle altre parti. L'accidente invece è qualcosa di in qualche modo “interno” alla sostanza: una parete deve avere un colore (se non fosse bianca, sarebbe di un altro colore, ma qualche colore lo deve avere, per quanto sbiadito possa essere), mentre una casa può benissimo non avere 20, ma 16.

Le caratteristiche della sostanza sono le seguenti:

a.unità: la sostanza deve essere un che di uno: un sasso è una sostanza, un mucchio di sassi no;

b.determinatezza: deve essere un tode tì, un questo qui, deve potersi indicare concretamente: l'umanità non è sostanza (se non in senso secondario: “sostanza seconda”), lo invece è l'uomo, quest'uomo qui (questo è “sostanza prima”, sostanza in senso vero e proprio);

c.indipendenza: appunto in quanto la sostanza sussiste, e non inerisce: un maglione è sostanza, il blu no, perché è sempre blu di qualcosa, di qualche sostanza, ad esempio blu del maglione;

d.attualità: deve essere qualcosa di attuale, di reale: il seme che è seme ora, è sostanza, la pianta che il seme può diventare, sviluppandosi, non è sostanza, finché il seme resta seme.

In base a tali presupposti può essere detto sostanza:

  • non la materia: che non è attuale, né determinata, né indipendente, né davvero una.
  • nemmeno, sotto ogni aspetto, la pura forma, che nelle sostanze corporee non è indipendente, pur essendo determinata, una e attuale
  • ma il sinolo, l'unione di forma e materia, forma e materia in quanto uniti in un essere concreto: questa è la vera sostanza che costituisce il mondo fisico, da noi immediatamente conosciuto.

teologia

la metafisica come scienza del divino

Tra le varie sostanze centrale è la sostanza prima, il Primo Motore Immobile (Πρώτον Κινούν ακίνητον), che, pur invisibile e spirituale, può essere affermato a partire dal divenire che constatiamo nel mondo fisico.

esistenza

Infatti il movimento del mondo è eterno, eterno essendo il tempo (è infatti impensabile che non ci sia un “prima” di ogni ipotetico inizio, e un “dopo” di ogni ipotetica fine); ora il movimento, eterno, deve avere una causa eterna, perchè affinché qualcosa divenga occorre qualcosa che faccia divenire, faccia passare dalla potenza all'atto; questa causa deve essere qualcosa che già sia in atto, di più, che sia atto puro.

Infatti non si può risalire all'infinito nella catena di cause del divenire, altrimenti non si spiegherebbe niente: occorre fermarsi (ανάγκη στήναι), fermarsi a una Prima Causa Incausata, a un Πρώτον Κινούν ακίνητον, un Primo Motore (|Movente) Immobile.

Si vede che per Aristotele il divino non è causa dell'essere, ma (solo) del divenire; l'essere del mondo per lui è autosufficiente, a non esserlo è solo il divenire.

Abbiamo visto come per lui il mondo produca meraviglia, per il suo esser-così, ma non stupore, per il suo essere: questo viene come dato per scontato.

essenza

Il Motore Immobile, per muovere tutto deve essere atto puro, ma poiché atto equivale a forma, Egli è forma pura, e poiché la forma è perfezione, Egli è pura, suprema perfezione, quindi è (anche e soprattutto) Intelligenza; in tal senso, ancora, Egli deve essere eternamente felice: come può esserlo? Solo avendo come oggetto della sua conoscenza quanto di più perfetto esista, cioè Sé stesso. Dunque il Motore Immobile contempla eternamente sè stesso, e non può conoscere altro fuori che sè, per non contaminarsi con qualcosa di imperfetto, che infrangerebbe la sua felicità. Perciò Egli non è creatore del mondo, né provvidenza: è il mondo che “va” verso di Lui, come verso il suo Fine, κινεῖ παντα ὡς ἐρώμενον.

fisica

lo sguardo filosofico sul mondo materiale

L'oggetto della fisica aristotelica è più ristretto di quello della metafisica: questa abbracciava l'intera estensione dell'essere, l'essere in quanto essere, la fisica invece solo una certa porzione di essere, quello in movimento, in pratica il mondo sensibile. Platone non vi aveva dedicato molte energie, mentre Aristotele ne fa oggetto di studio, sia pure in modo non paragonabile a quello della scienza moderna.

Il movimento è la caratteristica essenziale del mondo sensibile, fatto di sostanze composte di materia e di forma, perciò (in quanto la materia è fattore di potenzialità, e dunque di instabilità ontologica) divenienti.

Il movimento, o divenire, implica sempre

e può essere di quattro diversi tipi:

Nei primi tre tipi di movimento ciò che resta è la stessa sostanza, mentre a cambiare sono rispettivamente l'accidente luogo, o l'accidente qualità, o l'accidente quantità; nel caso del divenire sostanziale ciò che cambia è la forma sostanziale: una scompare e un'altra le subentra, mentre ciò che resta è la materia, sostrato indeterminato e potenziale, recettivo delle diverse forme.

In tutti e quattro i casi perché ci sia movimento occorre qualcosa che faccia cambiare, ossia una causa efficiente.

Le sostanze corporee sono collocate in uno spazio, e divengono nel tempo.

lo spazio

qualitativo

Per Aristotele lo spazio è qualitativo e finito. Qualitativo significa che esso non è isotropo, omogeneo, indifferenziato, ma c'è una differenza qualitativa tra luogo e luogo (teoria dei luoghi naturali). La terra infatti occupa il luogo più centrale nel cosmo, poi si dispone l'acqua, poi l'aria e infine il fuoco: ognuno dei quattro elementi della fisica antica ha dunque un suo luogo naturale, una casa a cui tende inevitabilmente a ritornare. Al di sopra della sfera terrestre, sublunare, sta poi il mondo celeste, fatto di un quinto tipo di elemento, l'etere o quintessenza, che ha come caratteristica l'incorruttibilità; infatti l'unico tipo di movimento che tale mondo conosce è quello locale, mentre non subisce altre alterazioni, né quantitative, né qualitative, né sostanziali.

finito

Oltre che qualitativo, lo spazio è poi finito; egli infatti definisce lo spazio come il limite del corpo contenente, in quanto è contiguo al contenuto; e non è concepibile un corpo senza una superficie, e una superficie è necessariamente delimitata, finita. Dunque il cosmo nel suo insieme, che può essere visto come un unico, grande corpo (fatto come è di tanti corpi), deve avere un confine, ed è perciò finito.

Ma se si prescinde dall'intero universo, non c'è alcuna altra cosa al di fuori del tutto, e perciò tutte le cose sono nel cielo: che il cielo, s'intende, è il tutto! Il luogo, invece, non è il cielo, ma, per cosi dire, l'estremità del cielo, ed è [immobile limite] contiguo al corpo mobile: e per questo la terra è nell'acqua, questa nell'aria, questa, a sua volta, nell'etere, l'etere nel cielo: ma il cielo non è affatto in un'altra cosa.

il tempo

Aristotele lo definisce come «la misura (il numero: αριθμoς) del movimento secondo il prima e il poi»: non ci sarebbe perciò tempo se non ci fosse il divenire, il baricentro del tempo è nella oggettività del divenire:

L'esistenza del tempo [...] non è [...] possibile senza quella del cambiamento; quando, infatti, noi non mutiamo nulla entro il nostro animo o non avvertiamo di mutare nulla, ci pare che il tempo non sia trascorso affatto.

Il divenire (oggettivo) non è però l'unico ingrediente del tempo: che è misura del divenire (il che aggiunge qualcosa alla pura fattualità del cambiamento):

Quando [...] noi pensiamo le estremità come diverse dal medio e l'anima ci suggerisce che gli istanti sono due, il prima, cioè, e il poi, allora noi diciamo che c'è tra questi due istanti un tempo, giacché il tempo sembra essere ciò che è determinato dall'istante: e questo rimanga come fondamento

Si potrebbe [...] dubitare se il tempo esista o meno senza la esistenza dell'anima. Infatti se non si ammette l'esistenza del numerante è anche impossibile quella del numerabile, sicché, ovviamente, neppure il numero ci sarà. Numero, infatti, è o ciò che è stato numerato o il numerabile. Ma se è vero che nella natura delle cose soltanto l'anima o l'intelletto che è nell'anima hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l'esistenza del tempo senza quella dell'anima[...]

Il tempo non ha avuto inizio né avrà fine, poiché il mondo è eterno. Non esiste infatti un Essere trascendente, onnipotente, intelligente e libero che lo possa aver creato (dal nulla, facendo iniziare ad essere). Dunque se il mondo esiste, esso deve avere in sé la ragione del suo essere (il Motore Immobile, infatti, ne spiega il divenire, non l'essere).

la vita

Gli esseri viventi hanno la capacità di automuoversi: non divengono solo per una causa esterna, ma hanno anche un principio interno di movimento. C'è dunque, sostiene Aristotele contro l'ilozoismo dei presocratici, una differenza qualitativa tra sostanze viventi e non viventi.

Questa capacità richiede un tipo speciale di forma sostanziale, cioè l'anima, che lo Stagirita definisce come entelechia prima di un corpo fisico che ha la vita in potenza (De anima, B 1, 412 a 19/22).

Ci sono tre tipi di anima

l'anima vegetativa

è il principio più elementare di vita, condizione dell'accrescimento (a cui non bastano cause esterne, come pensavano i naturalisti, occorre una regola interna), della nutrizione (non meccanico trasferimento di elementi simili, ma assimilazione del dissimile, mediante il calore), e della riproduzione, con cui ogni vivente, come specie, cerca l'eternità:

L'operazione che per i viventi è piu naturale di tutte (per quei viventi che sono perfettamente sviluppati e non hanno difetti e non hanno una generazione spontanea) è quella di produrre un altro essere uguale a sé: un animale un animale, una pianta una pianta, al fine di partecipare, per quanto è possibile, all'eterno e al divino; infatti è a quello che tutti aspirano ed è quello il fine per cui compiono tutto ciò che per natura compiono [...]. Poiché, dunque, i viventi non possono partecipare dell'eterno e del divino con continuità, per la ragione che nessuno degli esseri corruttibili può permanere identico e numericamente uno, allora ciascuno ne partecipa nella misura in cui gli è possibile partecipare, l'uno di più, l'altro di meno, e permane non lui, ma un altro simile a lui, non uno di numero ma uno di specie.

l'anima sensitiva

Gli animali, oltre all'anima vegetativa, hanno questo ulteriore tipo di capacità, a) di rendersi conto del mondo immediatamente attorno a loro e b) di reagire conseguentemente, e questa capacità è spiegata dalla presenza in loro dell'anima sensitiva

la conoscenza

La capacità di rendersi conto dell'ambiente circostante, conoscendolo, si articola nell'attività dei sensi. Per Aristotele ci sono, oltre ai cinque sensi esterni, quattro sensi interni: il senso comune, la memoria, l'immaginazione e l'estimativa.

Il senso (esterno) è in potenza il sensibile (è capacità di diventare il sensibile), da esso viene modificato (quando è ancora dissimile, come sottolineava Anassagora) e ad esso si assimila (recuperando la tesi di Empedocle: al termine del processo, quando ha patito, diventa simile), assumendo la forma del sentito.

gli “appetiti”

La conoscenza prepara la reazione dell'animale, di attrazione, per il positivo, o di repulsione (fuga/aggressività), per il negativo: davanti a ciò che ha conosciuto l'animale prende posizione.

Al primo tipo di reazione, mossa dal positivo che è stato sensibilmente conosciuto, presiede quello che i latini hanno chiamato appetito concupiscibile, al secondo il cosiddetto appetito irascibile, che governa le reazioni come la paura e l'aggressività.

l'uomo

L'anima intellettiva come specifica dell'uomo

L'uomo, oltre all'anima vegetativa e a quella sensitiva, ha l'anima intellettiva, che ne spiega la capacità di pensare e di volere.

L'anima intellettiva si esprime attraverso le potenze conoscitive dell'intelletto attivo e di quello passivo, e la potenza appetitiva dell'appetito razionale o volontà.

L'intelletto attivo (νους ποιετικòς) è la potenza che coglie gli aspetti intelligibili universali dentro il dato sensibile, facendo così passare la conoscenza umana dal livello sensoriale, fatto di particolari, a quello razionale, sostanziato di concetti universali.

L'intelletto passivo utilizza poi gli elementi universali preparati da quello attivo per l'effettiva attività del pensare, che si configura, secondo Aristotele, come unità tra il pensante e il pensato mediante il concetto, che è rappresentazione del pensato extramentale nel pensiero. Così, pensando, l'anima umana «diviene in qualche modo tutte le cose», di una unità non fisica, ontologica, ma intenzionale.

L'appetito razionale o volontà è la capacità di tendere al bene, riconosciuto come tale dall'intelletto. Per Aristotele la volontà è quindi orientata necessariamente al bene, non vi è in essa qualcosa di paragonabile a quello che Freud avrebbe chiamato impulso di morte (thanatos), né quella fragilità al bene, che il Cristianesimo attribuisce al peccato originale. Tuttavia l'intelligenza degli esseri umani non sempre riconosce quale sia il vero bene, quello che attua la natura umana. è il tema che viene affrontato nell'Etica.

etica

il fine ultimo

L'uomo organizza tutto il suo agire in vista di un fine, e i fini particolari sono subordinati a un fine ultimo; in termini generali il fine ultimo, per l'uomo, come per ogni vivente, è l'attuazione della propria natura, l'autorealizzazione, il raggiungimento insomma della propria perfezione (ἐντελέχεια); tale attuazione, che è il nostro bene, porta con sé la felicità (εὐδαιμονία): tutti gli uomini necessariamente tendono alla felicità, quindi necessariamente tendono ad attuare la propria perfezione.

Tuttavia se tutti gli uomini desiderano e non possono non desiderare la felicità, diverso è il modo con cui se la immaginano, per cui di fatto i diversi uomini hanno diversi fini ultimi (il denaro, il piacere, il successo, etc.), ma ciò non toglie che il vero fine ultimo, quello commisurato alla natura umana sia uno solo.

Esso non può essere il piacere (comune agli animali), né la ricchezza (che è puro strumento-per), né il successo e la gloria, che sono esteriori all'uomo; esso è la realizzazione ciò che di più proprio abbiamo come uomini, e al contempo la più perfetta partecipazione possibile alla vita del Motore Immobile: la contemplazione della verità intelligibile.

Di fatto solo pochi uomini possono raggiungere tale fine ultimo; tutti invece possono coltivare le virtù.

le virtù

Le virtù sono dianoetiche o etiche, a seconda che perfezionino l'intelletto o la prassi.

Virtù dianoetiche sono l'arte (τέχνη, habitus che perfeziona la capacità di produzione di oggetti), la saggezza (φρόνησις, habitus che perfeziona la capacità di compiere azioni buone), l'intelletto (νοῦς, che perfeziona la capacità di cogliere i principi), la scienza (ἐπιστήμη, che perfeziona la capacità di dimostrare le conseguenze dei principi, giungendo fino al dettaglio analitico) e la sapienza (σοφία, che unisce intelletto e scienza ed à perciò l'esercizio supremo dell'intelligenza). Quest'ultima così coincide in qualche modo con la stessa filosofia prima.

Ognuna delle virtù etiche è giusto mezzo tra due estremi:

Un rilievo particolare, in Aristotele come già nel maestro Platone, lo ha la virtù della giustizia, che egli distingue in

politica

Tesi fondamentali della filosofia politica di Aristotele sono le seguenti:

naturalità della società

L'uomo è per natura socievole, è un animale politico; la società non è dunque frutto di una scelta arbitraria, non è una convenzione, di cui l'uomo potrebbe anche fare a meno; un segno di questa naturale socievolezza umana è la parola (logos), che rende l'uomo atto a dialogare e discutere. L'uomo dunque realizza la sua natura non in uno stato “selvaggio” di isolamento, ma nella civiltà, in società.

il “giusto mezzo”

La forma migliore di società è quella basata sul "giusto mezzo": una "polis" non troppo grande né troppo piccola, non governata né da una troppo ristretta oligarchia né dalla massa del popolo, incline a farsi condizionare dalle emozioni, bensì dalla classe media; in questo lo Stagirita si discosta dall'utopismo del maestro, del resto superato dallo stesso ultimo Platone: è inutile inseguire una perfezione assoluta in politica, è meglio puntare su ciò che è relativamente meglio, ovvero la monarchia, da preferire alla tirannide, l'aristocrazia, da preferirsi all'oligarchia, e la politeia da preferirsi alla demagogia. Aristotele non dice quale sia in assoluto la migliore forma di regime, tuttavia propende a pensare che per popoli non ancora molto sviluppati, barbari, sia una buona costituzione la monarchia, mentre se un popolo è maturo, come lo è quello greco, la forma migliore è la politeia. Quest'ultima è la forma di regime più stabile, meno soggetta a rivoluzioni, che sono sempre eventi traumatici e a cui lo Stagirita dedica approfondite analisi, sostenendo che esse si verificano ultimamente quando una costituzione è causa di gravi ingiustizie.

l’inegualitarismo

la schiavitù

«L'istituto della schiavitù era considerato normale in tutta l'antichità, perché la mancanza di mezzi di produzione meccanici (le macchine, su cui si fonda l'economia industriale) rendeva necessaria la disponibilità di manodopera per provvedere ai bisogni più elementari, e in genere venivano fatti schiavi i barbari prigionieri di guerra.»

«Aristotele è il primo che si pone il problema se la schiavitù sia giusta, segno che essa non gli appare sempre ovvia, anche se la mancanza di macchine gliela fa apparire necessaria (egli giunge a dire infatti che “se le spole tessessero da sé, non ci sarebbe bisogno di schiavi”). La sua risposta è che essa è giusta solo quando è effettivamente fondata sulla natura, cioè quando sono schiavi coloro che non sanno governarsi da sé e sono fatti per obbedire ad altri: nel caso concreto, i barbari (anche questa era un'opinione condivisa da quasi tutti i Greci, con l'eccezione di qualche sofista).» (E.Berti)

Esistono differenze qualitative tra gli esseri umani: i liberi sono superiori agli schiavi, i greci ai barbari, gli uomini alle donne e ai figli (Politica, I, 13).

In particolare egli sostiene che i greci siano il giusto mezzo tra la laboriosità rozza dei nordici e la raffinatezza rammollita degli orientali: i greci sono al tempo stesso laboriosi (come nordici) e civilizzati (come orientali). è questa la parte più caduca della filosofia di Aristotele, quella che più esprime la sua appartenenza alla contingente situazione storica della civiltà greca, ma si potrebbe dire delle civiltà non-cristiane: solo la fede cristiana in effetti afferma senza ambiguità la reale e profonda eguaglianza di tutti gli esseri umani. Con buona pace di quanti hanno visto nell'antichità classica un luminoso regno di saggezza, oscurato poi dal Cristianesimo, la verità è che l'età antica pensa in termini di diseguaglianza e di discriminazione.

la poetica

Sono importanti in particolare due temi nella poetica aristotelica, quello di poesia nel suo confronto con la storia (dunque il concetto di imitazione) e quello di catarsi.

poesia e storia

La storia ha come oggetto un particolare vero, la filosofia l'universale (vero), mentre la poesia ha come oggetto un particolare universalizzabile verosimile.

Per la storia cioè è essenziale che il particolare narrato sia vero, devono essere dei fatti (particolari) reali, realmente accaduti. La poesia (e quindi l'arte in genere) invece non si preoccupa della verità di ciò che narra, ma solo della sua verosimiglianza, cioè non le importa che ciò che è narrato sia accaduto, ma che possa accadere.

Una vicenda (un particolare) che può accadere (una vicenda verosimile) è un particolare che potrebbe presentarsi in modo simile in molti casi (reali, veri). Ossia è un particolare universalizzabile. E appunto in questo consiste la medietà della poesia tra storia e filosofia.

Proprio il fatto che si tratti di un particolare universalizzabile dice che esso non è oggetto di una mera riproduzione, di una passiva imitazione, ma è implicito che si dia nell'attività poetica un momento di rielaborazione

la catarsi

Il fatto che il particolare narrato sia universalizzabile apre poi la strada all'altro grande tema della poetica aristotelica, quello della catarsi. Dire infatti che una vicenda è universalizzabile significa dire che essa può riguardare tutti, può riguardare anche anche me.

Nelle vicende dell'eroe tragico, ad esempio, mi posso ritrovare anch'io, posso immedesimarmi con lui. Quindi assistere alla vicenda tragica non mi lascia indifferente, ma mi coinvolge, anche sul piano emotivo-affettivo: si produce così in me quella che Aristotele chiama catarsi, cioè purificazione.

La catarsi è anche qualcosa di fisico-emozionale (può provocare ad esempio pianto, o riso, o altri fenomeni fisiologici come, per esempio un aumento del battito cardiaco, o il sudare), ma non si riduce ad esso: anzi, se si verifica un aspetto fisiologico-emozionale è perché, prima, deve essere accaduto qualcosa di conoscitivo, di noetico: cioè devo aver giudicato che quella vicenda mi riguarda, che ciò che accade all'eroe tragico, o ad altri protagonisti, potrebbe accadere anche a me.

Ciò mi purifica perché mi aiuta a vedere ad esempio nella sofferenza non qualcosa di particolarmente sfortunato che accade solo a me, ma un comune retaggio del genere umano.

la logica

Dopo aver visto ciò che esiste (prima dell'azione umana: scienze teoretiche, o in seguito all'azione umana: scienze pratiche e poietiche) Aristotele tratta di ciò con cui conosciamo ciò che esiste, lo strumento, in greco òrganon, con cui conosciamo, cioè il pensiero, in greco logos: di qui i nomi di Organon, che designa l'insieme delle opere aristoteliche di logica, e appunto la logica è la scienza del logos, del discorso, del pensiero. Da notare peraltro che Aristotele chiamava analitica la (sua) logica.

Il pensiero ha diversi livelli: il livello più semplice, più elementare, è quello del concetto (ad esempio il concetto di mela, quello di rosso); viene poi il livello, più complesso, del giudizio, che unisce più concetti (ad esempio questa mela è rossa); e infine viene il livello di massima complessità, che è il ragionamento, che unisce più giudizi (le mele rosse sono mature, questa mela è rossa, quindi è matura).

i concetti

Sono, come abbiamo detto, gli ingredienti più elementari del pensiero, gli elementi per così dire atomici, non ulteriormente scomponibili. Aristotele ne parle ne le Categorie.

comprensione ed estensione

Essi possono avere un diverso grado di comprensione (cioè di densità contenutistica, di specificità) e di estensione (cioè di universalità, di generalità). Ad esempio il concetto di insetto è più esteso di quello di formica, quello di invertebrato più di quello di insetto, quello di animale più di quello di invertebrato.

Tra estensione e comprensione esiste un rapporto, per così dire, di proporzionalità inversa: quanto più un concetto è esteso, tanto meno sarà comprensivo, tanto meno avrà contenuti specifici.

I concetti più estesi di tutti, che conservino un carattere di univocità, sono le (10) categorie, già viste in metafisica: sostanza, qualità, quantità, relazione ecc.; al di sopra delle categorie c'è un altro concetto, più esteso di esse, perché tutte le ricomprende, perdendo però il carattere di univocità: si tratta del concetto, analogico, dell'essere.

la definzione

I concetti possono essere definiti. Una buona definizione comprende due parametri:

Uno degli esempi più celebri fatti da Aristotele è la definizione di uomo come animale (genere prossimo) razionale (differenza specifica). Si potrebbe osservare che in base alle nostre conoscenze scientifiche animale non è il genere prossimo, che in questo caso potrebbe essere ad esempio mammifero, o primate, ma non dobbiamo essere troppo severi con lo Stagirita, la cui epoca non aveva ancora conosciuto Linneo e gli sviluppi della biologia.

i giudizi

Aristotele ne parla soprattutto nel De interpretatione. Egli distingue i giudizi in

La logica aristotelica studia soprattutto i secondi, che si distinguono per

i ragionamenti

rappresentano la massima complessità del pensiero, legando tra loro più giudizi. Possono essere fondamentalmente di due tipi: induttivo e deduttivo.

l'induzione

Essa parte da giudizi particolari (questo cigno è bianco, quell'altro è bianco, 1200 cigni sono bianchi) e arriva a giudizi universali (tutti i cigni sono bianchi). O, per fare un esempio aristotelico: l'uomo, il cavallo, il mulo e l'asino sono longevi, tali animali sono senza bile, quindi l'assenza della bile è la causa della longevità (gli animali senza bile sono longevi).

E' un tipo di ragionamento soggetto a possibili errori.

la deduzione

E' il ragionamento perfetto, passa da giudizi più universali a giudizi più particolari: è il sillogismo:

Se le premesse sono (contenutisticamente) vere e il sillogismo è formalmente corretto (in particolare comprendendo non più di tre termini), la conclusione è infallibilmente vera.


Per un giudizio

Aristotele ha dei notevoli meriti, che elenchiamo nella colonna di sinistra della seguente tabella, mentre i suoi limiti li elenchiamo a destra:

aspetti positivi e negativi nella filosofia di Aristotele
😃il riconoscimento che la realtà è strutturalmente intelligibile e ordinata (tesi comune alla cultura greca, ma da lui esplicitata con insuperata sistematicità); 😧questo ordine rimane però limitato al livello universale necessario, lasciando il contingente e il particolare, cioè l'ambito della vita concreta, nella assenza di significato adeguato;
😃il realismo gnoseologico: la conoscenza umana è aperta alla realtà, e può conoscere con certezza delle verità stabili e universali; 😧la conoscenza che gli interessa è quella dell'universale, e questo lascia nel soggetto concreto un senso di inappagante vuoto;
😃la tesi che la conoscenza inizia con la sensazione (che evita un ripiegamento spiritualistico su una interiorità soggettiva, come serbatoio di contenuti innati), ma si dispiega fino a un livello di universalità (evitando così la riduzione empiristica, già professata dai sofisti e dopo di lui riproposta da epicurei e stoici); 😧Non si spinge fino in fondo nel valorizzare né la sensazione (che ha a che fare con l'insignificante essere accidentale), né l'intelligenza, che viene decapitata del suo vertice, la ricerca inesausta del Significato infinito di tutto;
😃il riconoscimento della esistenza di una realtà non visibile, divina, più reale dello stesso mondo fisico; 😧questo divino non è un Tu, non è Mistero infinito, onnipotente e creatore, che si possa pregare, ma un “Motore Immobile” narcisisticamente ripiegato su di sè;
😃una antropologia che da spazio a un livello spirituale come distintivo dell'uomo nei confronti del mondo animale; 😧tuttavia non riconosce il fattore libertà, limitandosi al fattore intellettivo, come vero fattore differenziante dell'uomo: così non è ben focalizzato in lui il concetto di persona;
😃la tesi che l'uomo non si realizza nei piaceri, nel successo o nella ricchezza, ma solo coltivando quel livello spirituale che gli è specifico; 😧la contemplazione, come la intende lui, rischia di essere ancora un trastullo, una droga intellettuale (oltretutto solo per ricchi fortunati), che non risolve né affronta il dramma costituito dalla morte;
😃l'idea della naturalità della società e il primato di un regime politico moderato e “razionale”; 😧ma il «giusto mezzo» da lui propugnato può facilmente essere inteso come compromesso accomodante;

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