La copertina del libro

Medioevo filosofico: il realismo conoscitivo

1) Apertura alla realtà. Tutta la filosofia medioevale, tranne poche eccezioni, come quella del nominalismo, è animata da una forte fiducia nella capacità dell’uomo di conoscere la verità, con una certezza fondamentale incommensurabilmente più grande e più forte dei dubbi che possono riguardare questioni particolari.

È vero che gran parte dei filosofi medioevali ha avuto una eccessiva fiducia nella capacità conoscitiva umana, un eccessivo ottimismo gnoseologico: lo si può, tra l’altro, vedere dal numero tutt’altro che esiguo di filosofi che hanno sostenuto l’ultrarealismo riguardo al problema degli universali, di cui parlerò poi. Questo è connesso a una certa effettiva credulità di molta cultura medioevale, e non solo popolare: penso a quanto scrive Pier Damiani riguardo a certi animali, dove egli dà credito a racconti del tutto inverosimili.

Ancora, il Medioevo la faceva troppo facile dove si trattava di dare una spiegazione dei fenomeni settoriali in cui si articola il mondo dell’esperienza, il mondo naturale, dove insomma si trattava di dare una spiegazione scientifica. (...) E anche per quanto concerne la conoscenza sapienziale, quella propriamente filosofica, non si può negare che il Medioevo trascurasse la dimensione di assimilazione soggettiva della verità, cioè “come facciamo noi ad avvicinarci alla verità”. Si puntava tutto sul fatto che la verità c’è, “è là”, oggettivamente. Ma in tal modo il pensiero medioevale dimenticava che non basta che il vero ci sia, in sé stesso: occorre che diventi vero per me; e questo non è immediato, richiede un cammino, una pedagogia di persuasione.

E questo ottimismo gnoseologico, che si illude di poter conoscere molto di più di quanto ci sia, per via dei nostri limiti, consentito, ha contribuito anche ad alimentare dei comportamenti pratici non di rado intolleranti, e talora anche violenti.

Tuttavia, nonostante la presenza di tali eccessi, resta il fatto che la mente umana può davvero conoscere la realtà, è fatta per conoscerla. Si tratta solo di tenere presente, come non sempre nel Medioevo (ma anche prima di esso e anche dopo di esso), che la nostra conoscenza della realtà è imperfetta. Dove imperfetta non vuol dire falsa.

Chi getta via, con “l’acqua sporca” del dogmatismo intollerante, anche il “bambino” del realismo, spesso lo fa perché convinto che la vera libertà e quindi la vera dignità dell’uomo stiano nel suo essere sciolto da ogni dipendenza, non dipendente da altro-da-sé, da un dato. Ora, non c’è dubbio che se il valore supremo è l’indipendenza, che il Medioevo ha decisamente avversato, esso sia stato lesivo della dignità umana. Se però uno pone come valore supremo la felicità, e se aderire alla realtà, per quanto scomoda, è l’unico modo per giungere a una felicità non illusoria, ma, appunto, reale, allora non si potrà dire che sia meglio essere indipendente anche al costo di una ultima, e profonda, infelicità. Gli apparirà, piuttosto, vero quanto diceva Chesterton ne I racconti di padre Brown : «ciò che noi tutti temiamo di più (...) è un'incertezza senza nessun cuore [a maze with no centre]. È per questo che l’ateismo è un incubo»8.

Se quindi valore supremo sono verità e felicità, non si potrà guardare senza un pizzico di nostalgia a quel Medioevo che ha avuto nei confronti della vita uno sguardo in ultima analisi positivo e robustamente lieto; e questo deriva da una volontà di adesione alla realtà come data, come un dato. È infatti da questa accettazione che scaturisce quel “cuore da bambino”, che Cristo chiedeva ai suoi seguaci («se non ritornerete come bambini non potrete entrare nel Regno dei Cieli», Mt, 18, 2). Ed è questo atteggiamento di fiducia verso la realtà che poi rende possibile la letizia, di cui parla Bernanos ne Il diario di un curato di campagna quando fa dire al Curato di Torcy che

«un marmocchio ha le sue pene come tutti; è, nel complesso, così disarmato contro il dolore, la malattia! (...) Ma è dal sentimento della propria impotenza che il fanciullo trae umilmente il principio della sua stessa gioia. Si rifugia in sua madre, capisci? Presente, passato, avvenire, tutta la sua vita, la vita intera, è compresa in uno sguardo, e questo sguardo è un sorriso. Ebbene, ragazzo mio, se avessero lasciato fare a noialtri, la Chiesa avrebbe dato agli uomini (...) questa specie di suprema sicurezza. (...) Noi avremmo abolito, avremmo strappato dal cuore d'Adamo il sentimento della sua solitudine.» (G. Bernanos, Diario di un curato di campagna, tr.it. Mondadori 1965, pp. 46-7).