una foto di de Lubac

L'intento fondamentale

Dialogare con l'umanità moderna,
riscoprendo la Tradizione

pubblicato su

De Lubac, Cristianesimo e modernità, ESD, Bologna 1994

contesto

Il contesto teologico in cui de Lubac ebbe a formarsi e ad operare era quello di un cattolicesimo tridentino che tendeva a presentare il Cristianesimo in termini di sforzo umano verso Dio, sforzo di obbedire a una legge piuttosto che gioiosa accoglienza di una Iniziativa liberante, e finiva con l'assumere, agli occhi dell'umanità moderna, i tratti di un giogo pesante e soffocante, contribuendo così a scavare un solco incolmabile tra la fede e le esigenze più vere dell'umanità.

Tale cattolicesimo “tridentino” aveva avuto il suo fondamento teorico, filosofico e teologico, in una certa interpretazione di Tommaso d'Aquino, data da quello che possiamo chiamare, per distinguerlo dal vero S.Tommaso, neotomismo.

Henri De Lubac, come molti altri teologi, contribuisce a riscoprire il vero Tommaso, come non è alternativo alla Patristica e a S.Agostino, ma è piuttosto in continuità con tale tradizione. E in tal modo si può aprire un dialogo sia con le altre “confessioni” cristiane da un lato, e con l'umanità moderna, dall'altro.

Quindi de Lubac è al tempo stesso attento a dialogare con l'umanità moderna (respinta da un Cristianesimo arcignamente moralistico), e a riscoprire l'intera Tradizione cattolica, che non è circoscritta al breve segmento successivo al Concilio di Trento, ma si estende dai primi secoli cristiani fino all'oggi

Intento fondamentale

«La vicenda umana e teologica [di de Lubac] si iscrive nel contesto di quell'ampio movimento teologico, schematicamente definibile come "rinnovamento nella Tradizione", critico verso l'impostazione del fatto cristiano propria della teologia moderna.

Tale impostazione era valutata negativamente in quanto da un lato relegava la fede nell'ambito del sentimento privato, d'altro lato sottolineava la portata di conferma, che il Cristianesimo dà alla razionalità e alla moralità naturali, tendendo quindi a trascurarne la dimensione di radicale novità. Tale indirizzo prevalente in età moderna era rappresentato soprattutto da esponenti che si rifacevano a S.Tommaso, ma che per de Lubac ne tradivano lo spirito fondamentale, e che perciò meglio sarebbe chiamare, piuttosto che tomisti, neotomisti . Esso portava a separare il soprannaturale, la fede, il Cristianesimo dal naturale, cioè dall'umano, dalla cultura e dalla vita concreta: il fulcro del neotomismo, come lo intese de Lubac, era infatti la teoria della "natura pura", ossia il concepire l'ambito naturale come separato, autosufficiente, un ordine a sé stante con le sue caratteristiche e le leggi, che la Grazia non può scalfire, né tanto meno riplasmare.»

La tesi che sostengo è

a)che il problema di un rinnovamento era reale,

b)che non essendosi potuto attuare un rinnovamento nella tradizione, si è attuato [da parte di altri teologi, non di de Lubac] un rinnovamento per lo più in rottura con la tradizione."

il problema: Cristianesimo e modernità

«Vediamo allora di richiamare brevemente il contesto, che rendeva necessario un rinnovamento. Dopo la violenta provocazione rappresentata dalla Rivoluzione francese, sul piano pratico, e dai sistemi filosofici predominanti, ormai esplicitamente anticristiani, sul piano teorico, la Chiesa del secolo scorso prese a percepire lo sviluppo degli eventi storici e culturali come il configurarsi di un vero e proprio assedio da parte del “mondo laico”. Ovviamente non si possono fare delle generalizzazioni: l'atteggiamento di un Leone XIII non è paragonabile a quello di un Gregorio XVI; ma è innegabile che la tendenza dominante sia stata prevalentemente difensivo-polemica . Percependosi attaccata, la Chiesa avvertiva la necessità di serrare le fila intorno al Magistero pontificio da un lato, intorno al tomismo dall'altro. Quest'ultimo infatti era visto come il più sicuro baluardo contro il relativismo, il soggettivismo e lo storicismo, che inquinavano la cultura "laica" moderna.

E in effetti lo stesso Leone XIII, che fu il più aperto dei papi del secolo scorso» (il XIX secolo, e questo vale per tutte le volte che si incontrerà questa espressione: le citazioni sono tratte da una monografia pubblicata nel 1994) «decise di puntare sul pensiero di S.Tommaso per un'opera di ricostruzione culturale, che permettesse ai cattolici di riprendere l'iniziativa nella società contemporanea, contrastando il passo alla crescente egemonia laicista . In quel clima non poterono perciò attecchire tentativi, come quello della Scuola di Tubinga o del cardinal Newman, che pur affondando salde radici nella Tradizione cristiana, e specificamente patristica, guardavano alle esigenze e ai problemi dell'umanità contemporanea con partecipazione e spirito di valorizzazione: troppo forte era il sospetto che concedere qualcosa al moderno fosse l'inizio di una fatale capitolazione.»

una falsa soluzione: il modernismo

Per De Lubac il modernismo cede principio a una modernità non vagliata alla luce della fede, ma pone un problema reale

«Tale situazione non fece che peggiorare in seguito alla crisi modernista. Il modernismo, scrisse il cardinal Daniélou, confratello e amico del de Lubac, rappresentava la risposta erronea a un problema reale: l'errore della teologia dominante non fu di condannarlo, ma di non capirne la radice, di negare l'esistenza stessa del problema che l'aveva generato . Che il modernismo fosse una risposta erronea, in una prospettiva cristiana, è fuor di dubbio: nel suo tentativo di rincorrere la modernità esso era disposto ad abbandonare non solo qualche elemento secondario, divenuto effettivamente obsoleto, ma lo stesso nucleo fondamentale del dogma. Tyrrel, uno dei maggiori rappresentanti del modernismo, aveva un bel proclamare di voler restare fedele al Cristianesimo, e di voler evitare tanto la Scilla del formalismo scolastico, che fossilizzava il dogma nella sua, secondaria e transeunte, formulazione concettuale, quanto la Cariddi del liberalismo radicale, che dissolveva lo stesso nucleo dogmatico: riducendo infatti questo nucleo fondamentale a qualcosa di non-concettualizzabile, ma di semplicemente intuibile, sperimentabile, finiva col legittimare qualsiasi manipolazione concettuale del dogma. Il dogma era ridotto così a una sorta di plastilina, indefinitamente riplasmabile a seconda delle mutabili esigenze storiche. D'altro lato era pur vero, secondo Daniélou, che almeno una parte del fossato che si era aperto tra Cristianesimo e mondo moderno era dovuto proprio all'arroccarsi della teologia e della prassi cristiana in forme che potevano ben essere ridiscusse . Si trattava perciò di non chiudere gli occhi sul quel distacco ormai insopportabile, la responsabilità del quale non poteva essere interamente scaricata sul "mondo". Mentre la linea che si rafforzò fu (schematizzando molto) quella di condannare in blocco, col modernismo, l'intera impostazione moderna, innalzando il tomismo come unico possibile vessillo.»

una autodifensività controprodudente

la tendenza controversistica della Chiesa tridentina

«Del resto già da prima degli eventi esplicitamente anticristiani del secolo scorso la teologia cattolica aveva assunto un ruolo prevalentemente difensivo: è lo stesso de Lubac a dare questo giudizio, notando il carattere controversistico e piuttosto antiprotestante che davvero cattolico della maggior parte delle elaborazioni teologiche. Invece di puntare alla totalità cattolica (kat'olou), positiva e sintetica, invece di mirare anzitutto all'affermazione della verità ricevuta in Cristo, il cattolicesimo post-tridentino ha rischiato di avere come preoccupazione fondamentale la lotta all'errore, rattrappendosi così in una angolazione parziale.

Così, se il protestantesimo accentuava lo stato di decadenza della natura dopo il peccato originale, la teologia cattolica doveva per contrapposizione accentuare la sanità della attuale condizione postlapsaria, al punto da rasentare il naturalismo; se il protestantesimo accentuava l'atto di fede come assolutamente debordante la ragione, se non proprio irrazionale, e rivolto immediatamente al Padre, il cattolicesimo sottolineava la dimensione razionale dell'atto di fede, al punto da presentarlo come una conseguenza pressoché necessaria della determinazione dei praeambula fidei, e inoltre la fede era concepita come rivolta essenzialmente agli enunciati del Magistero, quasi si credesse piuttosto nella Chiesa che, attraverso la Chiesa, in Dio; se il protestantesimo estremizzava il valore della Scrittura, il cattolicesimo per converso tendeva a minimizzare la centralità della Pagina sacra; se il protestantesimo negava la presenza reale di Cristo nell'eucarestia e riduceva la S.Messa a mero ricordo della Cena, il cattolicesimo a sua volta accentuava in modo unilaterale il significato della presenza reale, col rischio di sganciarla da un preciso riferimento all'ecclesialità, che è la principale mediatrice del Verbo incarnato; se il protestantesimo esaltava l'esclusivo ruolo dell'abbandono fiduciale nelle mani della Misericordia del Padre, per i sovrabbondanti meriti del Crocefisso, escludendo una reale cooperazione della volontà umana all'opera della salvezza, il cattolicesimo per reazione rischiava di sottolineare in modo eccessivo l'importanza delle opere, finendo talora, almeno a livello omiletico, nello scadere in un'impostazione moralistica.»

Soluzioni che anticipano de Lubac

Nel mio libro ricordo le soluzioni proposte dapprima dai gesuiti Rousselot (pp. 17/19) e De Grandmaison (pp. 19/20), e poi dalla scuola domenicana di Le Saulchoir (pp. 21/29): tra i nomi più noti, quello del padre Chenu.

In particolare quest'ultimo propugnava una critica «verso il metodo teologico che anteponeva la costruzione razionale, il proliferare di concetti e di ragionamenti astratti, rispetto al Dato rivelato. Si trattava invece di ritornare a considerare quest'ultimo non una semplice occasione, uno spunto iniziale, da abbandonare quanto prima, ma la linfa permanentemente vitale, l'anima del sapere teologico. La razionalità non deve perciò soffocare il Dato della Rivelazione, vitalmente contenuto nella Sacra Scrittura, e irradiante nella positiva storicità (irriducibile a pura logica deduttiva) della tradizione e della vita ecclesiale, né deve ad esso sovrapporsi; ma deve piuttosto lasciarsene permeare, e da esso farsi determinare.»( p. 22)

La “Nouvelle Théologie”

Dalla la fine degli anni Trenta intorno a de Lubac si costituisce un nucleo di teologi (gesuiti) che dimostra una notevole vivacità intellettuale. Ne sono testimonianza due notevoli iniziative editoriali: le collane "Théologie" e "Sources chretiennes".

Le idee dei "nuovi" teologi si riassumono in due coordinate: una valorizzazione di istanza moderne (l'importanza della soggettività, della storicità, della concretezza esistenziale), ma prima e più ancora un "ressourcement", un ritorno alla tradizione, alle fonti, viste soprattutto nella teologia patristica, che permette loro di relativizzare il tomismo. Recupero della (propria) identità, dunque, e confronto spregiudicato con l'alterità, con l'alterità costituita da un mondo moderno, che si pensa non possa più essere puramente e semplicemente condannato come una serie di errori.

I dubbi del Magistero

Di fronte a tale tentativo prevalsero, nel mondo teologico cattolico, diffidenza e sospetto. Soprattutto dei teologi domenicani, tra cui il Garrigou-Lagrange e il Labourdette, si adoperarono perché il Magistero, nella sua più alta espressione, la santa Sede, estinguesse prontamente quella che ai loro occhi costituiva un pericoloso inizio di incendio. La sante sede si rivelò, in un primo tempo, sensibile a tali preoccupazioni, né vi fu, purtroppo, chiarimento tra de Lubac e i teologi domenicani (tomisti, diciamo, di stretta osservanza).

Nel libro che stiamo citando, si difende la tesi che ciò fu più che altro un doloroso equivoco, e che una chiarificazione e un dialogo costruttivo sarebbe stato intrinsecamente possibile, e avrebbe non poco giovato alla vicenda della teologia e della Chiesa del '900.

Per proseguire si veda la scheda sul soprannaturale in De Lubac