L'aristocrazia in Francia
...prima della Rivoluzione
"Che cosa intendere per "aristocrazia"? Il significato della parola varia, e di un termine utilizzato abbastanza ampiamente la rivoluzione ha fatto un uso ancor più diffuso. In senso più stretto, la tradizione del pensiero politico sin da Aristotele definisce l'aristocrazia, secondo il Robert, come una "forma di governo in cui il potere sovrano appartiene a un numero ristretto di persone, in particolare a una classe ereditaria". Una definizione così limitata, applicata alla Francia, che ha conosciuto dei re sovrani e un popolo sovrano, ma mai un'aristocrazia sovrana, ci lascerebbe senza un tema. Altre, come "l'aristocrazia del talento", per esempio, sono troppo ampie. Lo stesso dicasi dell'espressione "gli aristocratici alla forca", che ne è venuta a caratterizzare ogni oppositore, o sedicente tale, della rivoluzione. Qui l'efficacia stessa della parola, e la sua capacità di mobilitazione politica, la rendono strumento inefficace per una descrizione sociale oggettiva. In un modo forse un po' arbitrario, localizzerò il problema sulla nobiltà, sia pure riconoscendo che la nobiltà francese non deriva che in parte dalla definizione classica, che ne fa una classe ereditaria.
Il carattere ereditario di uno status privilegiato era infatti l'appannaggio della nobiltà; la isolava dal resto della società e dava unità a un corpo peraltro diverso per ricchezza, funzione sociale o cultura. Il possesso dei privilegi si estendeva ben al di là della nobiltà, poiché ne godevano anche parecchi plebei - amministratori, magistrati, e persino calzolai. Ma questi privilegi non erano che temporanei e personali, legati alle funzioni esercitate, ai diritti o monopoli comprati o semplicemente a un luogo di residenza. A differenza di quelli dei nobili, i privilegi plebei erano sempre revocabili dal re (se ne rimborsava il prezzo) e, fino a un certo punto, indipendenti dalla persona: proprietà disponibili che potevano essere vendute ad altri o perse cambiando residenza. Per i nobili, al contrario, l'essenza della nobiltà e il suo privilegio distintivo erano propri della persona. Una volta acquisita, la nobiltà era interna e permanente, poteva essere trasmessa solo ai figli e senza nessuna difficoltà, senza passare dal notaio.
Da due secoli, la caratterizzazione della nobiltà dell'Ancien Régime ha ispirato una massa di generalizzazioni che comprende verità e mezze verità. La più vecchia, e probabilmente la più diffusa nel XIX secolo, si fonda su una condanna morale. La nobiltà del XVIII secolo è ritenuta licenziosa, soddisfatta di sé stessa, frivola, arrogante, pigra e oziosa, totalmente diversa, in breve, dalla borghesia onesta e in ascesa che costruiva un ordine nuovo a forza di lavoro e di integrità. Visione riconfortante per le anime sensibili. Giacché la nobiltà francese del XVIII secolo, ora lo sappiamo, marciava inesorabilmente verso la sua distruzione collettiva, in quanto ordine. Alcuni dei nobili erano destinati alla ghigliottina, altri, ben più numerosi, alla perdita dei loro beni, e migliaia all'esilio. Pensare che avevano lavorato alla propria perdita è un'idea rassicurante. I moralisti avevano già scritto dei buoni libri sull'argomento: la lussuria e la licenziosità dei patrizi non avevano fora provocato la caduta dell'impero romano, l'ipocrisia e la venalità del clero di Roma non avevano portato alla Riforma? Niente di sorprendente nel fatto che altri abbiano imputato la rivoluzione francese al fallimento morale di un'élite. Per loro Les liaisons dangereuses di Laclos erano un'opera di etnografia, la descrizione clinica di un mondo corrotto e in agonia.
La corruzione tuttavia non può permetterei di caratterizzare una nobiltà la cui morale non era diversa da quella degli altri gruppi sociali. Dopo il 1830 conte d'Allonville, che era ancora in grado di ricordarsi della vita prima della rivoluzione, diceva di aver conosciuto una morale perlomeno decente, delitti meno frequenti che altrove, l'osservanza dei doveri materni, degli adulti interessati ai giovani. Le abitudini sessuali dei nobili non sembrano essere state molto diverse da quelle dei borghesi. è vero che l'arroganza dei nobili è ampiamente attestata. I paggi del re a Versailles si divertivano a sputare dal balcone dell'Opéra all'arrivo dei borghesi, oppure a marciare a ranghi compatti in città per spingere i passanti nella sporcizia che riempiva le strade. Si potrebbero moltiplicare facilmente questi esempi, ma bisogna altresì notare che sono riportati con la menzione delle punizioni in cui sono incorsi i loro autori. A dispetto della condiscendenza, le relazioni personali tra nobile e plebeo erano in generale ragionevolmente buone e distese. Nelle accademie provinciali e parigine i nobili, che costituivano circa un terzo dei membri, si mescolavano tranquillamente con i due terzi che non lo erano, e la rapida diffusione delle logge massoniche prima della rivoluzione fornisce altre occasioni per annullare le pretese della nascita. Con il passare degli anni, anche l'ornamento personale era diventato più semplice. Babeuf che certo non era un ammiratore degli aristocratici, osservava alla vigilia della rivoluzione che da qualche tempo era impossibile distinguere dall'aspetto un gran signore dai suoi immediati inferiori. All'interno della casa, dove un tempo il numero e l'apparato dei domestici maschi in livrea era stato l'oggetto della rivalità fra aristocratici, i rapporti con la servitù sembrano essersi evoluti come nel mondo borghese. Parimenti il servizio domestico si era femminilizzato durante tutto il secolo, ed era dedito sempre più esclusivamente alle necessità della cucina, delle pulizie e della cura dei bambini, tendenza "borghese" che non risparmiò le dimore dell'aristocrazia. In poche parole, i codici di moralità quotidiana e gli stili di vita, mettendo da parte la ricchezza che permetteva ai nobili di possedere una maggior quantità di beni, si erano molto ravvicinati.
Che cosa pensare del rimprovero, così vivo nel 1789 e dopo, di ozio, anzi di parassitismo? Anche in questo caso si impongono delle sfumature. Su 200000 individui nobili, 40000 circa erano degli uomini adulti in età di occupare un impiego. Almeno un quarto servivano come ufficiali nell'esercito e nella marina. Uno su dodici o quattordici era magistrato in una corte sovrana o nell'alta amministrazione reale. Altri erano vescovi o vicari generali. Guy Richard ne ha annoverati un migliaio nel commercio e nell'industria. Erano numerosi nei porti, occupati nel commercio, nelle colonie soprattutto, nelle miniere e nella produzione di ferro, nell'industria tessile e nel commercio dei prodotti cartacei. Non inclusi nel computo e poco studiati, alcuni nobili erano vetrai o, soprattutto in Bretagna e Provenza, attivi nel commercio locale. Assieme ai plebei, si occupavano dell'esazione delle imposte. Molti più nobili di quanto non si creda facevano parte dell'amministrazione municipale e del basso clero; alcuni servivano addirittura nell'esercito come soldati semplici anziché come ufficiali. Il tasso di inattività completa può esser stato elevato fra i più poveri, ma un quinto di essi aveva un reddito annuale inferiore a mille lire. L'inattività dei nobili, nella maggioranza dei casi, era una scelta involontaria e in buona parte avevano un'occupazione.
Ma la realtà e la sua percezione sono due cose totalmente diverse. L'attività individuale della maggior parte dei nobili non li proteggeva dall'accusa di ozio e di inutilità. Tocqueville e Sieyès sarebbero stati d'accordo almeno su questo punto, largamente ammesso prima della rivoluzione. Da dove veniva questa convinzione, se i nobili erano generalmente attivi? è forse perché i compiti ai quali si dedicavano erano lontani, svolti sempre di più nel quadro di istituzioni dove solo i loro pari potevano osservarli. Nel vasto mondo dei contadini, dei borghigiani, degli artigiani, dei bottegai, quello che colpiva nei nobili del vicinato non era il lavoro, ma il privilegio. Lì i nobili non
recitavano che un ruolo accessorio, anzi nullo, nella gestione degli affari quotidiani e dei bisogni vitali. Quelli che avrebbero potuto contare qualche cosa erano ben lontani, e quelli vicini erano apparentemente i più avidi, e certamente i meno potenti. La loro assenza sempre più frequente nel governo locale o nella mediazione tra individui, gruppi, comunità e stato ci conduce inevitabilmente a Tocqueville. La vera responsabile di questa situazione era l'amministrazione reale la cui azione nel corso dei secoli aveva distrutto la nobiltà in quanto aristocrazia e l'aveva resa una casta. Nella sua rapida espansione dopo Richelieu, lo stato non faceva che andare fino al fondo della contrattazione fatale conclusa con gli aristocratici del XV secolo. Perché è allora che i nobili avevano commesso il peccato originale di vendere la libertà e il potere in cambio dei privilegi. Nell'abbandonare allo stato i loro antichi diritti ad avere una parte nelle decisioni e nel governo (nazionale e locale), avevano ricevuto in cambio il godimento di privilegi e di esenzioni senza obbligo. Ma si trattava di un prezzo troppo elevato. Nell'illusione di essere liberi perché non pagavano imposte e perché lo stato li lasciava in pace, compresero a stento che, assieme al governo, avevano perso la vera libertà. Sin da allora, alla nobiltà non restava altro da fare che ritirarsi nell'isolamento e nell'astensione.
Ormai il re aveva le mani libere per governare direttamente il popolo, senza passare per i suoi vassalli. Tale è l'interpretazione che dà Tocqueville, con abbondanza di dettagli. è così che analizza il lungo condizionamento dei francesi a una dipendenza sempre più forte nei confronti dello stato. Degli uomini liberi, che avevano un tempo agito spontaneamente e in completa indipendenza per risolvere i loro problemi immediati e le loro necessità, si vedevano intimare, prima di agire, di aspettare l'approvazione e gli ordini di un'autorità superiore. Non c'era più posto per una nobiltà indipendente, nessun ruolo per i nobili in quanto nobili. A poco a poco lo stato si accaparrava lo spazio pubblico, suscitando esso solo la speranza e il timore, l'elogio e il biasimo degli individui. Tristemente ma inesorabilmente, i nobili perdevano contatto con la popolazione. Non vi erano più interessi comuni fra i diversi gruppi: i compiti locali erano di competenza dello stato, la resistenza al carico fiscale non interessava i nobili che non pagavano imposte. Non avendo più alcuna funzione che legittimasse il suo status speciale e le sue distinzioni, la nobiltà si ritrovava vulnerabile. Nel popolo, l'idea di uguaglianza e l'odio del privilegio nascevano simultaneamente: perché considerare un gentiluomo diverso da un altro uomo, dato che tutti erano uguali di fronte allo stato, uguali per la loro esclusione dal potere? Il regime dell'ineguaglianza, iscritto nella legge ma diventato anacronistico, doveva dunque sparire. Lo stesso re lo lasciava capire nei suoi preamboli agli editti fiscali, e il governo insisteva regolarmente sull'ingiustizia dell'ineguaglianza fiscale, terribile fardello per il popolo laborioso e soffocato dalle imposte. Niente di sorprendente allora, secondo Tocqueville, se quando scoppiò la rivoluzione, la nobiltà era giudicata generalmente inutile e oziosa, e come tale detestata.
Questo breve riassunto è necessariamente poco fedele all'analisi di Tocqueville. Anziché tornare alla sua opera, esaminiamo alcuni aspetti della nobiltà ai quali egli è meno attento. Soffermiamoci dapprima sull'idea secondo la quale la nobiltà era soltanto, o principalmente, una élite terriera. Gli interessi materiali di una nobiltà "feudale", cioè di un corpo la cui unità proveniva da un potere agrario fondato su di un tipo comune di dominio economico, sono stati in questi ultimi anni oggetto di un vivo dibattito. Il fatto che molti nobili possedessero dei feudi bastava a costituire un interesse di classe? I canoni signorili, variabili da una regione all'altra, sembra che entrassero solo in minima parte nei redditi della nobiltà. Inoltre, non erano appannaggio dei nobili: certi feudi appartenevano a borghesi e alcuni nobili ne erano invece sprovvisti. Il regime feudale comprende certo l'esenzione dall'imposta, ma il suo significato economico è un po' ambiguo. La legge sulla taglia ne limitava l'esenzione a 120 o 125 ettari, e ne beneficiava anche un numero elevato di ufficiali e di borghesi. Le nuove imposte create nel XVIII secolo non risparmiavano i nobili e, nell'insieme, è verosimile che la nobiltà pagasse più degli abitanti sottotassati delle città. Durante la rivoluzione, i comitati incaricati di ristrutturare le imposte calcolavano per tutte le esenzioni una perdita annuale da parte dello stato di 30 milioni di lire. La parte dei nobili non doveva superare la metà, e i quindici milioni di lire supplementari che i nobili avrebbero potuto pagare, sebbene non trascurabili in se stessi, non avrebbero affatto riassorbito il deficit dello stato, che nel 1789 si avvicinava ai 150 milioni.
Infine, la parte fondamentale dell'economia nobiliare legata alla terra aveva poco da spartire con la feudalità, ma si apparentava ben di più con la rendita, familiare ai capitalisti. Come proprietari, i nobili avevano beneficiato della crescita demografica della popolazione rurale dopo la metà del secolo. Le pressioni maltusiane e una crescente competizione per l'accesso alla terra avevano fatto crescere il prezzo del grano e quello delle rendite, a beneficio dei proprietari e a danno della massa dei braccianti. Il vantaggio avrebbe potuto essere più decisivo per i nobili se avessero posseduto più terreni. Si sa che in realtà la nobiltà non ne deteneva, in media, che dal 25 al 30%, mentre il resto era diviso fra il clero (forse il 10%), la borghesia (20%) e gli stessi contadini. La crescita demografica dunque non avvantaggiava i nobili più dei borghesi ordinari e dei ricchi contadini: non si era per questo più benevoli nei loro confronti; ma l'ostilità accanita contro di loro era dovuta non tanto a ragioni feudali e istituzionali quanto a motivi demografici ed economici, dunque impersonali e moderni. E i nobili non erano che uno degli anelli della catena che ostacolava così pesantemente la maggioranza del mondo contadino.
Ma l'essenziale non consiste in questo. Ciò che difatti colpisce è quanto poco la nobiltà francese fosse legata alla terra. Un paragone sarà di chiarimento. L'aristocrazia francese era, in certo modo, la meno "feudale" fra le aristocrazie europee. In Francia, nessuna legge, nessuna circostanza, nessuna esigenza sociale pretendeva da un nobile che possedesse della terra in cambio del suo status speciale: sistema completamente diverso da quello dell'Inghilterra, per esempio, dove l'élite rurale definiva se stessa quasi interamente per mezzo della proprietà terriera. Là, circa 20000 famiglie di "veri gentlemen" formavano un gruppo paragonabile alla nobiltà francese in prestigio e in percentuale sulla popolazione totale. Ora, oltre Manica, questa élite non possedeva il 25 o il 30% della terra, bensì l'80%. Acquistarne era indispensabile alla condizione di "gentleman", e ne occorreva molta: più del 60% della nobiltà francese non avrebbe mai potuto far parte dell'élite inglese. Si può immaginare l'Inghilterra rurale come un grande scacchiere di spazi indivisibili, ciascuno dei quali sarebbe sembrato molto vasto alla maggior parte dei nobili francesi. I grandi proprietari potevano possederne parecchi, ma anche il membro più modesto dell'aristocrazia doveva detenerne almeno uno intero per guadagnarsi o mantenere il proprio status sociale. L'insufficienza di terra escludeva automaticamente dall'élite. Anche nell'Europa orientale il legame fra nobiltà e possedimenti terrieri era altrettanto forte, sia pure per motivi diversi: là, vastità di terre e lavoro servile dei contadini costituivano l'unica fonte di ricchezza con cui i nobili potevano mantenersi nella loro condizione, permanente e non remunerata, di "servitori dello stato", da cui appunto traeva origine il loro status sociale. Per loro fortuna, in queste regioni ancora poco popolate, la terra era relativamente abbondante; diversamente non avrebbero potuto disporre di quelle entrate con cui invece molti nobili francesi integravano le loro risorse (incarichi, rendite sugli individui o lo stato, proprietà urbana, talvolta anche il commercio). La nobiltà francese dunque, senza giungere ai livelli italiani o renani, si fondava su a proprietà terriera molto meno che in altri paesi.
Naturalmente la tradizione, il modo di pensare, l'attaccamento al luogo d'origine e alle radici della famiglia, il bisogno di un luogo ove sfuggire al calore estivo, tutti questi elementi insieme o separatamente inducevano i nobili a mantenere o a procurarsi una proprietà, sia pure modesta. Alcuni già ne possedevano di immense e s'impegnavano a ingrandirle ulteriormente. Nondimeno è incontestabile che la proprietà terriera non costituisse l'essenza della nobiltà francese. Difatti, la condizione fondamentale della nobiltà era precisamente di non avere alcun limite: poteva definirsi a volontà, o meglio, secondo quella del re. Poiché erano i re a creare i nobili. A dispetto di qualche individuo dotato di immaginazione, che sognava di antenati usciti dalle foreste germaniche o di conquistatori che cavalcavano da pari a pari con il re, la maggioranza conosceva bene l'origine della propria famiglia. Conservava con cura le pergamene reali che ricordavano o confermavano la condizione che era stata loro accordata. Ma con la crescita dello stato moderno, e soprattutto dei costi dell'amministrazione, dell'esercito, di una marina completamente rinnovata, la nobiltà divenne presto una risorsa finanziaria importante per la monarchia. Incapace di far rientrare imposte in maniera sufficiente per far fronte alla mancanza cronica di fondi e talvolta addirittura incapace di prendere denaro a prestito in modo normale, lo stato francese, sin dal XVI secolo, trasformò progressivamente i vecchi privilegi in cariche che si potevano acquistare con denaro e ne inventò di nuovi. La nobiltà divenne allora la parte prestigiosa di un insieme più vasto di privilegi che comprendeva monopoli, incarichi, diritti diversi, il trofeo che bramavano gli ambiziosi per loro stessi e per la loro posterità. In breve, lo stato scoprì che la nobiltà poteva diventare una fonte di profitto.
Ma occorrevano parecchie condizioni. Lo stato doveva innanzitutto stabilire la linea di demarcazione fra le classi, definendo molto precisamente lo status del nobile e indicando chi avrebbe potuto pagare per superare il limite. Doveva anche garantire di essere il solo a conferire la nobiltà, e che non si sarebbe potuto usurparla come nel passato. Restavano da creare dei nuovi meccanismi. Gradualmente la distribuzione di credenziali di nobiltà in cambio di denaro, comune fin dal XVI secolo, venne sostituita dalla vendita di incarichi che mobilitavano i loro detentori. Una pratica molto vantaggiosa; gli incarichi rappresentavano una specie di capitale che i re creavano a volontà e che vendevano ben più cari delle credenziali di nobiltà. E vero che ogni incarico, passando da individuo a individuo, poteva talvolta rendere nobili parecchie persone. Ma il trapasso era fonte di lucro per il re e, soprattutto, i loro ambiziosi detentori, individui o gruppi, erano ricchi e vulnerabili di fronte alla domanda dello stato che li sollecitava a prestiti forzati. Di tanto in tanto, generalmente in tempo di guerra, si domandava loro di trovare dei fondi supplementari da collocare in incarichi, cosa che estendeva i loro investimenti. Gli incarichi nel loro insieme finivano per formare un sistema reale di prestiti. Rappresentando alla fine un capitale troppo importante da rimborsare, diventarono una parte permanente delle istituzioni fino al 1789.
Nel XVII e fino all'inizio del XVIII secolo, si crearono incarichi a ondate. Istituzioni apparentemente moribonde ripresero nuova vita. Nella stessa epoca in cui il lavoro mancava, gli uffici delle finanze, per esempio, si misero a crescere, passando ciascuno da 4 a 5 uffici (verso il 1600) fino a 28 nel XVIII secolo. Dopo il 1715, le cancellerie comprendevano 800 cariche che davano nobiltà senza nessun'altra funzione, e le corti sovrane contavano altrettanti incarichi superflui. In totale, vi furono nel XVIII secolo più di 4000 posti di questo tipo, e i ricchi plebei se ne servirono ancor più efficacemente per diventare nobili. Le sole cancellerie, che creavano 10 nuovi nobili all'anno all'inizio del XVII secolo e 20 verso la fine, raggiunsero la cifra record di 50 nel 1730, alto livello di produttività che si mantenne fino al 1789. Camere dei conti, corti delle imposte indirette, uffici delle finanze, consigli sovrani o superiori, e anche parecchi parlamenti, tutti fecero molte reclute nella borghesia. Negli ultimi quindici anni dell'Ancien Régime, non meno di 2200 plebei ottennero degli incarichi che, senza la rivoluzione, li avrebbero resi nobili assieme ai loro discendenti. In breve, gli ultimi sessant'anni della monarchia furono l'età d'oro della mobilitazione. Niente di sorprendente nel fatto che, per certe persone, nulla sembrava limitare l'espansione della nobiltà in Francia, a differenza degli altri paesi d'Europa, dove la terra serviva da freno.
Probabilmente la maggior parte degli uomini che accedevano così alla nobiltà sarebbero sembrati perfettamente degni a chi avesse potuto conoscerli. Ma per coloro che non li conoscevano personalmente, che vedevano in loro solo una categoria tipo, la loro ascesa era un disastro, il sintomo di un malessere più profondo che colpiva la società francese. Incarnavano il male, la strategia del denaro in una Francia di cui molti condannavano il lusso eccessivo, la crescita sfrenata della corte e delle città, lo spirito commerciale impregnato d'egoismo, incoraggiati da uno stato inefficiente e sciupone. La maggioranza dei nobilitati passavano per essersi arricchiti a spese dello stato, attraverso i profitti della finanza, e visibilmente occupavano degli incarichi inutili. La mancanza di virtù non li scoraggiava dal ricercare gli onori. Questa profonda ostilità verso le pratiche che facilitavano l'accesso alla nobiltà era evidente nel 1789, e i cahiers dei nobili e del Terzo concordavano nel richiedere che la nobiltà ricompensasse il merito e non fosse venduta in cambio di denaro. A questi sentimenti dell'opinione pubblica la sola risposta di uno stato immiserito era stata, nel 1771, di imporre una nuova tassa sui plebei che acquisivano degli incarichi e di domandarne una simile ai nobilitati dopo il 1715 per confermare il loro status. Lo stato ratificava dunque il passato e s'impegnava per l'avvenire.
Dopo aver spogliato la nobiltà delle sue funzioni locali e politiche, lo stato sembrava avere ugualmente svalutato uno status che non gli serviva più per governare. Questo declassamento contribuì anche al destino dei nobili dopo il 1789, facendo scattare una apparente "reazione aristocratica" che ebbe degli effetti disastrosi agli occhi del pubblico. Diretta infatti contro i nobilitati, offese i plebei. I non nobili difficilmente potevano sapere che la famosa ordinanza di Ségur del 1781, che esigeva quattro quarti di nobiltà per essere ufficiali, non li riguarda. Dopotutto, i borghesi non avevano servito che raramente nell'esercito; la loro tacita esclusione non era stata fino ad allora mai contestata. Ma, resa esplicita, diventava materia di discussione. Con l'imposizione della regola genealogica, l'esercito aveva soltanto un'intenzione riformista: escludere dal corpo degli ufficiali i nobilitati che, lettere alla mano, erano attirati unicamente dal prestigio dell'uniforme e dello status di ufficiali. Nati da famiglie senza tradizione militare, abituati all'indipendenza, al denaro e al lusso, non sarebbero stati assimilabili. Una genealogia antica e rigorosa era il mezzo per eliminarli. Anche un buon numero di parlamenti, soprattutto delle città e delle regioni dove il processo di mobilitazione era molto rapido, imposero delle restrizioni simili per ragioni professionali analoghe. Ma gli uomini nuovi del Terzo Stato ignoravano completamente lo scopo di queste manovre - dirette dai nobili contro altri nobili - e vi videro al contrario delle nuove e arbitrarie angherie. La questione delle prove genealogiche si trasferì nella coscienza pubblica durante quel decennio, e cristallizzò l'ostilità dei semplici borghesi che non avevano mai sognato di diventar tenenti o magistrati."
(Dal Diz. Critico della Riv francese, Bompiani, pp. 570/6)
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